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Nicotina senza dipendenza, e topolini senza pace
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Articolo di Luca Borello
12 settembre 2008 0:00
 
Riceviamo e pubblichiamo. Una ricerca statunitense ha dimostrato che la nicotina non crea dipendenza fisica. A determinare la difficoltà nella cessazione dell’abitudine non sono fattori legati alla chimica della sostanza, ma psicosociali. Secondo gli studiosi, fumare una sigaretta agisce come rinforzo di un’esperienza piacevole, o come risarcimento in situazioni spiacevoli: è il fattore ambientale e comportamentale,  insieme al significato attribuito al consumo, ad alimentare la dipendenza.
I tabagisti sanno bene come la sigaretta possa rappresentare tanto un premio meritato (ad esempio dopo aver finito un lavoro, o aver fatto sesso), quanto una sorta di risarcimento minimo garantito per riequilibrare o smussare gli angoli di un’esperienza poco piacevole (perdere il treno, ricevere una brutta notizia).
La sigaretta, anche nella gestualità con cui viene fumata, sottolinea una situazione, uno stato d’ animo, iconograficamente un modo d’essere. Uscire a fumare una sigaretta con qualcuno equivale a ribadire un rapporto di confidenza, oppure a volerlo instaurare. Andare a fumare una sigaretta da soli è una strategia utile a prendere tempo, a ritagliarsi un momento di pausa, di raccoglimento. Fumare la prima sigaretta al mattino serve a sancire l’inizio della giornata, magari a darsi coraggio. Fumare lavorando aiuta a concentrarsi su quello che si sta facendo, perché tutte le distrazioni vengono assorbite dall’automatismo del gesto.
Insomma, la sigaretta è una parte di chi la fuma. Un elemento imprescindibile della sua identità. Per questo è difficile smettere: perché è come rinunciare a una parte del proprio corpo, del proprio spirito. Una parte molto utile e a cui ci si affeziona, per quanto dannosa possa risultare.
Aneddoto personale: una delle volte che, chissà perchè, ho provato a smettere (e ho resistito eroicamente per quasi due giorni), ho rinunciato quando, tornando a casa alla sera, ho scorto in lontananza, nel buio, l’insegna luminosa di un distributore di sigarette. La scritta “T”, avvolta in quel blu rassicurante, mi è apparsa come  una nave a un naufrago, scatenando una cascata di reminiscenze legate alla mia personale epica di tabagista: la ricerca spasmodica di monetine, i pellegrinaggi estivi o notturni alla ricerca di un tabaccaio, l’esultanza e il senso di soddisfazione nell’udire il tonfo compatto del pacchetto di droga che cade nel cassetto del distributore. Mi è venuta la malinconia. La malinconia di un amore che si è dovuto ingiustamente troncare. Ho ricominciato seduta stante. E mi sono sentito bene.
Ora, cosa aggiunge di nuovo questa sensazionale ricerca?
Sembrerebbe molto, invece nulla. A parte un po’ di topi di laboratorio torturati in più (purtroppo sì: il tutto si basa su esperimenti su topi).
La nostra società medicalizzata e deterministica non riesce ad accettare che una questione come il consumo di “droga” sia in realtà determinata da elementi relativi, soggettivi e culturali. Abbiamo bisogno di formule matematiche, di rapporti causa effetto a cui sia impossibile sottrarsi.
In realtà gli studi più avanzati sul consumo di sostanze (alcuni dei quali hanno ventanni e colpevolmente non sono stati mai tradotti in italiano) hanno da tempo messo in luce che la chimica di una “droga” conta solo fino a un certo punto, e che in condizioni socioculturali diverse, persino gli esiti psicotropi possono essere differenti: gli effetti di una droga sono socialmente appresi, non solo chimicamente determinati (si veda ad esempio Becker, Knipe, Zinberg). Lo stesso concetto di “dipendenza” viene messo in discussione, almeno nella sua intrinseca problematicità: a seconda del contesto e dell’epoca, alcune “dipendenze” sono stigmatizzate, altre indifferenti, altre ancora promosse (per citare solo gli autori più celebri Courthwright, Lindesmith, Peele, di nuovo Knipe; in italiano Verga).
La “dipendenza” vera, quella contro cui i “tossici” combattono per uscire dal “tunnel”, non è mai fisica (sebbene sia originata, per alcune sostanze, dalla tolleranza; e sebbene possa causare forti malesseri psicosomatici) ma psicologica, e culturale. Ed è influenzata anche dalla percezione che la società “astinente” ha del “drogato”: è infatti la società a stabilire quale dipendenza sia più dannosa, e perché; ed è la società a identificare chi sia “tossico”, e perché, al di là del danno reale che il “drogato” causa a sé stesso o ad altri. Ecco perchè sostenere che, in determinate circostanze, è possbilie utilizzare sostanze come l’eroina in maniera controllata (senza cioè compromettere la “normalità” delle relazioni o del lavoro), sembra assurdo, al limite della connivenza con il narcotraffico: in realtà è vero, come dimostrano gli studi del King’s College di Londra sponsorizzati dalla JRF, o quelli dell’Università di Amsterdam sulla cocaina. Il fatto che sia possibile, chiaramente, non significa che sia semplice o auspicabile: è possibile andare a 300 allora in autostrada e sopravvivere, ma è meglio non farlo.
Insomma, lasciamo perdere i poveri topi da laboratorio: sulle droghe possono dire poco che già non si sappia, a voler cercare bene, e per davvero, senza pregiudizi morali o ideologici.
Luca Borello e' ricercatore e documentalista su sostanze e dipendenze
 
 
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