
Come per altre questioni che riguardano la vicenda delle rette di ricovero in Rsa di Anziani non autosufficienti e/o portatori di disabilità, anche questa volta il caos regna sovrano.
Spesso gli utenti sono vittime di un ingiusto rimpallo quando il soggetto ricoverato in struttura cambia la propria residenza anagrafica in corso di erogazione del servizio sociosanitario o quando, avendo un parente in altra stagione è ivi inserito in un progetto residenziale, pur non recandosi all’anagrafe.
Capita che, ad esempio, il cittadino lombardo, con parenti toscani, rimasto solo, manifesti un bisogno nel proprio comune ma venga poi inserito in RSA privatamente, e chieda solo in quell’occasione o un cambio di residenza, oppure anche solo alla Asl o al nuovo comune un contributo per le rispettive quote, sanitaria e sociale.
E il più delle volte, neanche a dirlo, la risposta è la solita: si rivolga alle Istituzioni dell’altra regione.
Ma chi ha ragione in tutto questo?
L’art. 10bis DPR 223/89 che regola l’ordinamento anagrafico prevede che:
“Non deve essere disposta, ne' d'ufficio, ne' a richiesta dell'interessato, la mutazione anagrafica, per trasferimento di residenza, delle seguenti categorie di persone: “ a)…b) ricoverati in istituti di cura, di qualsiasi natura, purche' la permanenza nel comune non superi i due anni, a decorrere dal giorno dell'allontanamento dal comune di iscrizione anagrafica, c)….;”
Dunque, chi faccia ingresso in altro comune o regione dopo o per un ricovero in RSA,
non avrebbe “diritto” al cambio di posizione anagrafica? E ciò con tutto quanto ne consegue in termini di obblighi di contribuzione ai costi della retta da parte delle istituzioni di residenza?
La norma, introdotta nel 2015, parrebbe voler evitare il cd “turismo sanitario”, per far sì che gli Enti di cura possano correttamente pianificare le spese di assistenza, facendo i conti con la sola popolazione residente, senza che nuovi ingressi dovuti al bisogno di assistenza, alterino ed aggravino le casse delle Amministrazioni coinvolte nel progetto di cura.
Tuttavia, la norma contenuta in atto regolamentare e dunque di rango secondario, deve coordinarsi con principi che mirano, da un lato, alla tutela uniforme dei livelli essenziali di assistenza e dall’altro alla sempre maggior “personalizzazione” dei percorsi di cura voluta dal legislatore, a prescindere dalle singolarità delle amministrazioni che li erogano.
Ma su come tale articolo impatti sul percorso sociosanitario residenziale non c’è accordo tra Cassazione e Consiglio di Stato.
Secondo la ricostruzione fatta dal
Consiglio di Stato (sez. III - 15/02/2013, n. 930),
la norma sancirebbe una inefficacia relativa, ai fini del riparto degli oneri tra i territori, della modifica anagrafica:
"Le spese di ricovero stabile di paziente affetto da infermità di natura essenzialmente psichica ricadono sul Comune di residenza del soggetto in questione al momento del ricovero, senza che abbia rilievo la successiva acquisizione - inevitabile dopo due anni ai sensi degli art. 8 e 15, d.P.R. 30 maggio 1989 n. 223 - della residenza nel luogo in cui è situata la struttura ospitante.”
Con la conseguenza che, sia prima, ma
anche dopo i due anni di legge, risponderà sempre e comunque
l’ente di primo soccorso, essendo “inopponibili” alle nuove realtà territoriali le modifiche anagrafiche successivamente intervenute.
Secondo la
Corte di Cassazione (Sent. n.20401/19 e sent, n.19353/17), invece, la questione dipende, per la parte sociale, dalle singole leggi regionali, e dalle leggi nazionali per la parte sociosanitaria, secondo il riparto delle competenze Stato Regioni.
Se la legge regionale del luogo di cura, ad esempio, non preveda accolli in capo ad enti extra regionali di primo soccorso, le spese del nuovo residente trasferito rimarranno a suo carico, salvo compensazioni successive. In materia
sanitaria e sociosanitaria, invece, non vi sarebbero dubbi che spetti
a chi ha in cura la persona erogare i servizi residenziali, unica a poter prendere decisioni diacronicamente valide e corrispondendone i relativi oneri. E ciò in virtù del principio universalistico che attraversa l’intero sistema sanitario nazionale e che tutela il cittadino italiano senza eccezioni territoriali:
"L'erogazione dell'assistenza sanitaria, dovere primario delle ASL, è governata dal principio di universalità. Ciò vuol dire che ogni cittadino ha diritto di rivolgersi alla ASL che preferisce, come pure ad una struttura privata accreditata, e sinanche a medici od ospedali stranieri, quando le relative prestazioni non siano disponibili in Italia. Tale principio è sancito dalla L. 23 dicembre 1978, n. 833, art. 19, comma 2, il quale afferma che "ai cittadini è assicurato il diritto alla libera scelta (...) del luogo di cura nei limiti oggettivi dell'organizzazione dei servizi sanitari”.……….[….]…….Il diritto di libera scelta di cui è titolare l'assistito non può dunque essere sindacato dalla ASL, salvi i casi di frode alla legge. 1.5. Corollario di tale diritto è l'insindacabilità, da parte della ASL, della accettazione dell'assistito da parte della struttura da lui prescelta: se ogni cittadino può farsi curare dove vuole, ogni struttura privata convenzionata ha il dovere di accettare qualunque persona chieda il ricovero, ed ha diritto di ottenere il rimborso dei costi di ricovero secondo i principi stabiliti dalla legge. Se l'obbligo di prestare l'assistenza sanitaria grava sulle ASL e nasce dalla legge, non da un contratto, esso non può nemmeno dipendere dalla volontà delle ASL, le quali non hanno alcuna discrezionalità amministrativa al riguardo.”
Che fare, allora?
Se si accede alla ricostruzione della
Cassazione:
in primo luogo il cittadino dovrà comprendere la natura del servizio residenziale richiesto: se si tratti di mera assistenza o se invece possa qualificarsi come servizio sociosanitario con almeno una quota di spettanza sanitaria.
In secondo luogo, chiedere la valutazione multidimensionale al Comune di soccorso, ossia quello precedente al trasferimento in struttura extra-regionale per quanto di propria competenza, nonché all’Asl o all’ente consortile di nuova residenza e/o di cura che eroga le prestazioni sociosanitarie, tenuto ex lege alla prestazione.
Se si accede, invece, alle tesi del
Consiglio di Stato occorrerà rivolgersi unicamente, e a prescindere dalla natura delle prestazioni erogate, al cd domicilio di primo soccorso che semmai delegheranno il territorio di cura per le valutazioni di presa in carico, ma che rimarranno -per sempre?- onerati.
Il suggerimento per l’utenza, allora, è quello di sempre: nel caos fra orientamenti giurisprudenziali e di giurisdizione, occorre metter in mora
tutte le istituzioni sociosanitarie e socioassistenziali nessuna esclusa, ciascuno per le proprie prerogative e responsabilità.
Ed è di indubbia responsabilità solidale per tutte le Pubbliche Amministrazioni intimate, evitare il rimpallo e risolvere il problema burocratico, senza pregiudizio per il cittadino fragile.
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