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L’economia dell’inganno: le commissioni di collocamento
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Editoriale di Alessandro Pedone
20 luglio 2016 13:49
 
 Abbastanza recentemente uno degli economisti che più apprezziamo, Robert Shiller, ha scritto insieme all’altro economista amico, George Akerlof, un godibile libro dal titolo: “Ci prendono per fessi: L'economia della manipolazione e dell'inganno”. La tesi fondamentale del libro è che nell’economia basata sul profitto è in qualche modo “necessario” ingannare la gente.
 
In finanza esistono infiniti esempi di come, costantemente, gli intermediari finanziari approfittino delle loro maggiori conoscenze per confezionare prodotti che vengono accettati dai clienti solo perché non conoscono o non capiscono le caratteristiche e le loro reali implicazioni.
 
Un esempio abbastanza recente sono le commissioni di collocamento dei fondi comuni d’investimento. Si badi bene: i fondi comuni d’investimento, fra le varie “diavolerie” prodotte dalla così detta industria del risparmio gestito, sono forse gli strumenti meno criticabili. Figuriamoci…
Tornando alle nostre commissioni di collocamento sono, di fatto delle commissioni d’ingresso mascherate.
Le commissioni d’ingresso sono quasi sparite perché hanno un “difetto” molto grande per chi vende fondi: sono trasparenti. Si vedono ed al cliente non piace pagare… specialmente per un servizio di fatto inesistente (in teoria le commissioni dovrebbero servire al servizio di consulenza, in realtà tutti sappiamo che è un’attività commerciale, ma se si dice chiaramente si fa la figura di quello che mangia con le mani ad una cena di gala).
 
Ai tempi delle “normali” commissioni d’ingresso se un cliente versava 100 mila euro in un fondo, gli arrivava a casa una bella conferma d’investimento nella quale c’era scritto a chiare lettere che aveva investito meno di 100 mila euro perché la restante parte era servita a pagare le commissioni d’ingresso. Quindi, l’investitore, partiva già con una “perdita”.
Per ovviare a questo problema sono nati i fondi “no load” detti anche con il “tunnel”.
Di cosa si tratta? Sono fondi che non hanno la commissione d’ingresso, ma hanno costi di uscita decrescenti in base agli anni nel quale si esce. Qual è il trucco? Semplice: hanno commissioni di gestione (quelle che si pagano periodicamente) molto più alte. In questo modo, alla fine il cliente le commissioni le paga lo stesso in parte mentre è nel fondo ed in parte se decide di uscire prima.
 
Ma anche questo sistema ha un piccolo difetto per l’industria del risparmio gestito: le commissioni non si percepiscono subito. Le commissioni d’ingresso, contabilmente, forniscono un ricavo immediato. Ecco che si sono inventati le commissioni di collocamento.
Al momento, queste commissioni sono previste solo per i fondi a durata predefinita e che prevedono un periodo di sottoscrizione limitato (non superiore a 3 mesi). Questa è la ragione per la quale vanno tanto di moda da un po’ di tempo a questa parte i fondi a tempo.
In questi fondi, quando il cliente investe 100 euro nel fondo, gli arriva la sua bella lettera di conferma d’investimento con scritto che il valore delle sue quote rimane 100.
Quindi il cliente non percepisce (a meno che non sia una di quelle mosche bianche che si leggono i prospetti informativi) che ha pagato dei soldi.

Il trucco è che i soldi, al collocatore, non li paga direttamente il cliente, ma li paga il fondo stesso. (Più precisamente: il cliente per il tramite del fondo. Quello stesso fondo che lui avrebbe sottoscritto per farlo guadagnare e –come primo atto– pensa bene di darne una parte -solitamente nell’ordine del 3-5%- a chi l’ha fatto firmare...)
In questo modo, le banche che collocano i fondi d’investimento possono mettere in bilancio subito una bella fonte di ricavi.
Ma c’è un problema… il valore delle quote e' pubblico e questi soldi che sono usciti, fin dal primo giorno di funzionamento, dovrebbero implicare una diminuzione pari al costo della commissione di collocamento del valore delle quote. E questo non va bene, perché il cliente potrebbe rendersi subito conto del “giochino” che consiste nel rinominare in modo diverso le tanto “odiate” commissioni d’ingresso. Ci vuole una furbata. Uno di quegli “inganni” di cui parla Shiller nel libro citato all’inizio. La furbata è questa: il fondo inserisce fra gli attivi un credito (più precisamente un risconto attivo) che verrà compensato con una riduzione giornaliera del valore della quota. Detto in modo molto più semplice: è un banalissimo trucco contabile per nascondere queste commissioni e diluirne l’effetto visivo durante tutta la durata del fondo.
Si noti bene che il fondo non investirà, ovviamente, tutto il capitale versato dall’investitore, ma solo una parte, ciò nonostante l’investitore avrà la sensazione (sbagliata!) che il valore del suo investimento sia rimasto intatto dopo la sottoscrizione.
Che cos’è questo se non un inganno?
 
Le autorità di controllo potranno dire che questo non è un inganno perché sta tutto chiaramente scritto nei prospetti informativi. E qui veniamo ad un tema caro per noi di Aduc, che abbiamo ripreso tante volte: pensare di tutelare gli investitori semplicemente informandoli è una mera chimera.   
 
 
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