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Investimenti finanziari basati sull’evidenza
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Editoriale di Alessandro Pedone
4 aprile 2018 8:19
 
 A partire dagli anni ’50 nel mondo della medicina, ha iniziato a farsi largo il concetto “Evidence-Based Medicine” (EBM), ovvero “Medicina basata sulle evidenze”. Si tratta di un movimento culturale che si sta progressivamente diffondendo a livello internazionale il quale mette in discussione il modello tradizionale che basa(va) le scelte sulla formazione medica, l’esperienza clinica e le riviste specializzate.  Il concetto fondante dell’EBM è che il decisore deve tener conto di una combinazione di fattori fra i quali  le preferenze del paziente, l’esperienza clinica e gli studi controllati.

Si potrebbe pensare che la medicina abbia sempre fatto uso degli studi controllati per prendere decisioni. Ciò è vero, ma la metodologia prevista dall’EMB è qualcosa di molto più puntuale e strutturato. Chi volesse maggiori informazioni su questo tema potrebbe partire dalla seguente voce nella Treccani:  “Medicina basata sulle prove di efficacia
 
Trisha Greenhalgh e Anna Donald, nel loro libro “How To Read a Paper: The Basics of Evidence-Based Medicine”  (purtroppo non mi risulta una traduzione in italiano) parlano di "uso di stime matematiche di probabilità e rischio” (in apertura del loro libro, al capitolo 1, scrivono: “Evidence-based medicine is the enhancement of a clinician’s traditional skills in diagnosis, treatment, prevention and related areas through the systematic framing of relevant and answerable questions and the use of mathematical estimates of probability and risk”). Quando ho letto questo libro, una decina d’anni fa circa, occupandomi di finanza, ho pensato che una cosa del genere sarebbe stata molto utile anche nel mio settore. Con piacere osservo come nel mondo anglosassone, dove la consulenza finanziaria indipendente è molto più avanti che in Italia, questo concetto di Evidence-Based Investing, sta iniziando a prendere sempre più piede.
 
In Italia, la povertà culturale che affligge i così detti “professionisti” che si occupano di fornire raccomandazioni sulle scelte finanziarie degli investitori privati è, a dir poco, imbarazzante. Quando le cose “vanno bene” (si fa per dire) queste persone conoscono approssimativamente vecchie teorie, chiarissimamente superate, come il modello media/varianza di Markowitz  (d’altra parte, si tratta del modello che sta ancora alla base della quasi totalità dei prodotti di risparmio gestito tradizionali).
Salvo le solite eccezioni, in generale non c’è la benché minima preparazione accademica.
Il concetto di investimenti basati sull’evidenza, al contrario, presuppone non solo di aver studiato centinaia di articoli accademici, ma anche la competenza di saper distinguere tra articoli più o meno affidabili, in base a diversi criteri.
Tornando al mondo della medicina, esiste una “gerarchia” delle fonti accademico/scientifiche. Alla base di un’immaginaria piramide delle fonti esistono gli articoli e le opinioni degli esperti. Ce ne sono tantissimi e valgono relativamente poco, anche perché spesso sono fortemente contrastanti.
Poi ci sono vari report e casistiche. Hanno più valore delle opinioni, ma hanno sempre un valore probante molto scarso.
Man a mano che si sale nella qualità delle fonti troviamo gli studi di coorte, gli studi clinici randomizzati, fino ad arrivare alle meta-analisi.
La medicina basata sulle evidenze da molto valore alla qualità degli studi che si utilizzano.
Lo stesso vale (o dovrebbe valere...) nel mondo della finanza, un paper di un fund-manager che sostiene la sua teoria non ha lo stesso valore di un paper pubblicato in riviste “peer-review” di qualche professore universitario che ha decine di pubblicazioni alle spalle. Affinché un “fattore d’investimento” acquisisca lo status di “evidenza” sulla quale è possibile costruire una strategia d’investimento è necessario che sia documentato da diversi autori  con paper pubblicati su riviste affidabili.
 
La prima “evidenza” dalla quale partire
La prima evidenza dalla quale partire è prendere consapevolezza del fatto che le scelte d’investimento non sono mai fatte in modo del tutto razionale e consapevole. Il principale nemico degli investitori sono loro stessi.
Prima ancora di parlare di “fattori d’investimento”, cioè di come investire, è fondamentale partire da una accurata definizione del profilo dell’investimento.
Definire il profilo degli investitori è anche un obbligo di legge per chiunque raccomandi scelte d’investimento, ma il modo con il quale solitamente viene fatto è semplicemente ridicolo.
Si pretende di affidare ad un questionario, spesso compilato con “l’aiutino” del consulente stesso, il compito di identificare il profilo del cliente che viene incasellato in uno dei 4-5 profili standard grazie al “punteggio” ottenuto nel questionario stesso.
Come si fa a non vedere che tutto questo é semplicemente ridicolo?
Definire con precisione il profilo di un investitore richiede tempo oltre ad un flusso d’informazioni, prima dal consulente all’investitore e poi dall’investitore al consulente.
Prima di tutto l’investitore deve conoscere perché è così importante fornire tutte queste informazioni su di sé, le sue conoscenze ed esperienze, le sue propensioni, obiettivi, attitudini, ecc. Deve conoscere cosa s’intende per “rischio”, cosa significa, in pratica, essere classificati con un determinato profilo.
Una volta avuta tutte queste informazioni allora si può anche passare a compilare, autonomamente, uno o più questionari. Da questi questionari, però, non potrà mai discendere automaticamente un profilo. I questionari potranno essere un punto di partenza per una discussione con il consulente. Il vero profilo potrà essere solo il frutto, una sintesi, di un dialogo informato, non di un meccanicistico questionario.
Definire il profilo d’investitore è di fondamentale importanza proprio perché l’aspetto più rilevante per fare scelte d’investimento utili è quello di ridurre l’impatto delle scelte emotive.
Ci sono evidenze accademiche inoppugnabili che dimostrano come il singolo fattore che maggiormente diminuisce i rendimenti di lungo termine degli investitori sono le scelte legate alla propria emotività o ignoranza. Quelli che la finanza comportamentale chiama bias mentali.
Identificando correttamente il profilo di un investitore si riesce a stabilire delle strategie d’investimento adatte al suo profilo comportamentale.
Questo dovrebbe essere il vero senso di questa prima fase del processo d’investimento.
Nella realtà, invece, una volta compilato il questionario si riceve un’etichetta (tipicamente un numero da 1 a 5 o un enigmatico aggettivo tipo: conservativo, prudente, medio, dinamico o aggressivo) la quale prevede una determinata fascia di oscillazione del portafoglio, come se tutta la questione sul rischio degli investimenti fosse esprimibile con la volatilità del portafoglio.
 
Conclusioni
Questo 2018 dovrebbe essere l’anno zero per la consulenza finanziaria. Speriamo che il diffondersi di una approfondita consulenza finanziaria, di qualità, porti anche alla diffusione del concetto di investimento basato sull’evidenza così come sta accadendo da qualche anno nei Paesi anglosassoni.
Certo, se gli investitori pretendessero più professionalità dai propri consulenti, questo aiuterebbe…
 
 
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