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 ITALIA - ITALIA - Dare informazioni sulla 'dolce morte' in Svizzera non è istigazione al suicidio
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Notizia 
8 maggio 2024 10:36
 
Non vi è alcuna prova che il Presidente della associazione Exit Italia, Emilio Coveri, abbia in qualche modo rafforzato il proposito suicidario di Barbara Giordano - una insegnante quarantenne affetta dalla sindrome di Eagle - nel corso della conversazione telefonica del 2019 in cui ella chiedeva informazioni sul suicidio assistito in Svizzera. La Corte di cassazione, sentenza n. 17965 depositata oggi, ha così accolto, con rinvio, il ricorso dell’imputato contro la condanna comminatagli dalla Corte di appello di Catania a tre anni e quattro mesi di reclusione per l’istigazione al suicidio. In primo grado il Gup lo aveva assolto perché il fatto non sussiste.

La V Sezione penale bacchetta più volte la Corte territoriale evidenziandone “plurime lacune e fratture logiche” nell’apparato argomentativo, anche a prescindere dall’obbligo di motivazione rafforzata a cui sarebbe stata tenuta considerando il ribaltamento di una assoluzione.

Per integrare il reato previsto dall’articolo 580 c.p., una fattispecie plurisoggettiva necessaria impropria, spiega la Corte, devono necessariamente concorrere “l’azione autolesiva del soggetto passivo (di per sé non punibile) e la condotta del soggetto attivo del reato, che deve risolversi in una forma di istigazione, ossia nella determinazione o nel rafforzamento dell’altrui volontà suicida, ovvero di agevolazione dell’esecuzione del suicidio”.
La condotta di partecipazione morale - contestata all’imputato - rappresenta dunque, sul piano condizionalistico, un mero antecedente necessario dell’evento, che influisce, sul piano psicologico, sulla determinazione del soggetto passivo di compiere il gesto autolesivo. Per risultare tipica, però, deve presentare un “intrinseco finalismo” orientato all’esito finale, altrimenti si correrebbe il rischio di dilatare il perimetro oggettivo della fattispecie fino a ricomprendere qualsiasi condotta che abbia comunque suscitato o rafforzato l’altrui volontà suicidaria comunque liberamente formatasi.

Così ricostruito il quadro, la sentenza impugnata “appare del tutto inadeguata” nel ricostruire la responsabilità dell’imputato. La Corte, infatti, avrebbe dovuto innanzi tutto spiegare in che termini le parole pronunciate “debbano ritenersi specificamente orientate a rafforzare la volontà della Giordano di accedere al suicidio - vincendone dunque eventuali resistenze - e non rappresentino piuttosto la generica manifestazione delle astratte opinioni dell’imputato sul fine vita”. Tacendo il fatto che l’unica ricostruzione della conversazione è proprio quella fornita dallo stesso imputato che tuttavia ne offre una lettura completamente diversa.

Neppure può attribuirsi al Coveri, come fatto surrettiziamente, una “sorta di posizione di garanzia” nei confronti di chi si rivolge all’associazione, per via della quale egli non potrebbe manifestare le proprie opinioni sul fine vita.

Ma, prosegue la Cassazione, le “lacune e le aporie motivazionali” sono ancora maggiori con riguardo al nesso eziologico, affidato ad un sillogismo: la Giordano per via delle sofferenze e dello stato depressivo che ne era conseguito era un soggetto fragile, dunque, vulnerabile e per questo influenzabile e di fatto influenzata dai discorsi del Coveri nel corso dell’originario contatto telefonico del dicembre 2017.

È stato invece del tutto sterilizzato, ai fini del giudizio condizionalistico, il “rilevante intervallo temporale” tra il contatto telefonico - del dicembre del 2017 - e l’esecuzione del suicido, nel marzo del 2019. È evidente, scrive la Corte, che, qualora la supposta condotta istigatoria sia di molto risalente all’esecuzione del suicidio, è necessario valutare con estrema cautela la sua effettiva natura condizionante anche in considerazione delle ragioni per cui il proposito suicidario è stato portato a termine solo dopo molto tempo.

Senza contare poi che i contatti con l’associazione si erano interrotti ad agosto del 2018 mentre nel gennaio del 2019 a seguito di un nuovo ricovero le sofferenze erano aumentate. La sentenza di condanna dunque non ha dimostrato l’effettiva influenza della conversazione del 24 dicembre 2017 sulla decisione. Ed in effetti – chiosa il Collegio – “l’unico dato certo offerto dalla sentenza è che, a seguito di tale conversazione, la Giordano ha acquisito le informazioni necessarie per mettersi in contatto con la clinica svizzera ed avviare la pratica di suicidio assistito”.
Infine, conclude la Cassazione, anche ammesso che la condotta all’imputato corrisponda a quella tipizzata, la Corte avrebbe dovuto evidenziare le ragioni per cui egli “non possa eventualmente aver agito in maniera solo imprudente e, qualora avesse ritenuto atteggiarsi il dolo nella sua forma eventuale, se e per quale motivo possa ritenersi che l’imputato si fosse chiaramente rappresentata la significativa possibilità di verificazione dell’evento concreto e ciò nonostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l’eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l’evento lesivo”.

(Francesco Machina Grifeo su IlSole24Ore del 07/05/2024)


 
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