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Gli ambientalisti bocciano il primo anno di 'transizione ecologica' del Governo Draghi
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Articolo di Redazione
12 febbraio 2022 10:35
 
 L’11 febbraio di un anno fa, l’allora premier in pectore Mario Draghi chiamava a raccolta le tre principali associazioni ambientaliste italiane – Greenpeace, Legambiente e Wwf – per un confronto sulla transizione ecologica: allora secondo gli ambientalisti era «un segnale importante», e proprio per questo oggi la delusione è ancora più cocente.
Secondo le tre associazioni finora ci sono «poche luci e troppe ombre sul concreto avvio della transizione ecologica del Governo Draghi», su tutti i fronti: «Contrasto della crisi climatica, tutela della biodiversità, agricoltura sostenibile, economia circolare, inquinamento da plastica sono i banchi prova su cui il Governo e il ministero della Transizione ecologica, che doveva rappresentare la più importante innovazione istituzionale di questa nuova stagione, non hanno risposto».
Al primo posto nella classifica delle delusioni spicca il contrasto alla crisi climatica, cui oggi si accompagna quello al caro bollette: «Sul cambiamento climatico e le scelte energetiche si è perso tempo prezioso, andando spesso in controtendenza svuotando di significato e demonizzando la transizione energetica».
Mentre il ministro Cingolani rivendica di aver fatto «tutto ciò che era in nostro potere per preparare la strada che da qui al 2030 ci porterà ad avere 70GW di elettricità prodotta da eolico e fotovoltaico», lo Stato non riesce neanche ad assegnare gli incentivi ad oggi vigenti per mancanza di impianti autorizzati ad operare, e l’Italia resta il peggior Paese d’Europa nell’iter di permitting.
«Le proposte del Mite hanno indebolito l’impulso sul rilancio delle fonti rinnovabili, tuttora al palo – confermano gli ambientalisti –  senza rimuovere le barriere che ne rallentano la diffusione e in assenza di nuovi strumenti di partecipazione per ridurre le contestazioni territoriali e favorirne la realizzazione degli impianti, ma al contrario creando nuove problematiche e dando segnali scoraggianti per gli investitori, come sulla tassonomia e sul decreto contro il caro-energia. Si è continuato, inoltre, a esaltare e cercare di allargare il ruolo del gas fossile (anche nella tassonomia europea) nonostante proprio il gas rappresenti la fonte energetica e di gas climalteranti predominante nel Paese e a rilanciare l’opzione nucleare».
Basti pensare ai vari Piani nazionali in perenne attesa: quello per energia e clima (Pniec) è stato inviato a Bruxelles nel gennaio 2020 con parametri già vecchi, e il documento non è stato ancora aggiornato nel rispetto del pacchetto Fit for 55 avanzato dalla Commissione Ue, nonostante le varie bozze annunciate da Cingolani; va ancora peggio sul fronte del Piano nazionale per l’adattamento ai cambiamenti climatici, con una bozza ferma nei cassetti del ministero dal 2017 e ripresa in mano lo scorso marzo, senza che da allora siano arrivate novità nel merito mentre i danni da meteo “estremo” continuano a crescere.
Non va meglio sul fronte della tanto applaudita economia circolare, che il Pnrr si limita in gran parte a interpretare come gestione dei rifiuti urbani, che peraltro pesano cinque volte meno degli speciali: «All’innovazione nel settore dell’economia circolare il Pnrr assegna solo 600 milioni di euro, pari allo 0,3% di tutte le risorse del Piano – argomentano gli ambientalisti – Inoltre, dei 2,1 miliardi di euro assegnati specificamente sino al 2026 dal Pnrr all’economia circolare, 1,5 miliardi sono destinati alla realizzazione di impianti per la gestione di rifiuti urbani, i cui costi sono già coperti dalle tariffe di conferimento degli Rsu. Queste scelte sono state fatte in assenza di un disegno strategico coordinato, confermato dalla mancata definizione ad oggi della Strategia nazionale per l’economia circolare, del Programma nazionale per la prevenzione dei rifiuti, atteso dal 2020, e di un Programma nazionale per la gestione dei rifiuti».
L’auspicio anche in questo caso è di una robusta accelerazione, con la Strategia nazionale attesa entro giugno; sempre entro metà anno dovrebbe inoltre arrivare dal Mite un «piano di uscita» dai sussidi ambientalmente dannosi, che secondo lo stesso Mite pesano sui conti pubblici per 21,6 mld di euro l’anno ma su cui finora ci si è limitati a operazioni di maquillage.
Gli ambientalisti sottolineano poi che anche «le risorse assegnate dal Pnrr e dalla legge di Bilancio 2022 alla tutela della biodiversità sono state marginali». Mentre i sussidi dannosi per la biodiversità arrivano, sempre secondo il Mite, a quota 36,17 mld di euro l’anno, sull’altro fronte ci sono «appena 1,19 miliardi di euro equivalenti allo 0,5% dell’ammontare complessivo del Pnrr (191,5 mld di euro)».
«Le associazioni – concludono nel merito gli ambientalisti – attendono un cambio di passo rispetto agli impegni assunti sinora in vista della prevista approvazione entro l’anno della Strategia nazionale biodiversità (Snb) al 2030 che deve puntare, in coerenza, con la Strategia europea, a proteggere il 30% del nostro territorio e dei nostri mari, assicurando una protezione integrale al 10% del nostro territorio, e destinare il 10% del territorio agricolo alla tutela della biodiversità naturale».

(Greenreport del 11/02/2022)
 

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