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Coldiretti, di Lobby e di Governo
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Articolo di Gian Luigi Corinto
6 giugno 2023 11:33
 
Pare che l’Italia sia una nazione di contadini. Pare nel senso che appare così. L’Italia è narrata come la patria degli spaghetti, del pomodoro, dell’olio e del vino come eccellenze identitarie oltre che economiche. Forse è una bolla, scontata la giusta misura delle cose. Il Pil agricolo italiano vale circa 42 miliardi di euro nel 2022, in calo rispetto all’anno precedente.
Vale cioè circa il 2,2% della ricchezza totale prodotta. Però, un artificio teorico-contabile mette insieme il settore agricolo con l’intero sistema alimentare, includendo in questa contabilità l’intera catena di produzione di valore, dal campo alla ristorazione. In questo modo, si contabilizza che il sistema agroalimentare produce più di 522 miliardi di euro,
permettendo quindi di dire che rappresenta il 15% del Pil nazionale. Più del turismo, che vale il 13% circa. L’agroalimentare è un vanto nazionale, come si dice ora, sia per il vanto che per il nazionale, perché questo Pil settoriale lo fa classificare al primo posto in Europa per valore aggiunto. Un altro inghippo da districare riguarda il numero di aziende agricole che ci sono in Italia. Le definizioni di azienda e impresa, in agricoltura, non coincidono, essendo la prima l’insieme dei fattori produttivi, organizzati e gestiti dalla seconda. La distinzione è sottile, da addetti agli studi, ma fonte di incertezza su quanti sono gli imprenditori, per così dire “veri”, distinti da quelli che sono semplicemente possessori di un pezzo di terra. Per semplificare, i dati ufficiali ci dicono che, dal punto di vista strutturale, sono 1,5 milioni le aziende agricole, di cui il 27% orientate al mercato con il 75% della produzione, contro il 66% del totale di cui il 36% ha rapporti commerciali solo saltuari e il 30% per autoconsumo. Come a dire che le imprese agricole vere sono circa 400 mila e non un milione e mezzo. Sempre con riferimento ai dati disponibili, le aziende condotte da giovani minori di quarant’anni sono poco più di 100 mila. Insomma, a dirla tutta, gli agricoltori italiani sono pochi, ma pur sempre eccellenti, non fosse altro che per la capacità di restare a coltivare la terra, dopo che tanti se ne sono andati.
Una vera eccellenza agro-nazionale c’è, e sta a cavallo tra agricoltura e turismo: l’enoturismo da solo vale circa 2,5 miliardi di euro (si dice, perché le stime sono difficili, ma il dato è credibile). Un paragone può comunque essere utile per capirne la dimensione. Giorgio Armani fattura circa 6 miliardi e la sua eleganza, da sola, vale più del doppio del turismo del vino. L’enoturismo però batte la coppia Dolce & Gabbana che fattura solo 1,5 miliardi. Non Prada che vale 3,37 miliardi. Questi numeri dicono che il settore agricolo è in buona salute, ma che sta benone solo perché si contabilizza insieme all’industria agroalimentare e perché è oggetto di grandi narrazioni. Per inciso, nell’alimentare la sola Ferrero fattura 14 miliardi di euro, non certo utilizzando esclusivamente materie nazionali, anzi. Eppure, c’è nell’aria un comune sentire che l’Italia sia un paese, una nazione, fondata sulla ricchezza prodotta dall’agricoltura. Come mai? Una piccola spiegazione ci può essere.
Prospera da decenni un sindacato agricolo che riesce ancora a esercitare una propria egemonia culturale stando sempre dalla parte del Governo di turno. La Coldiretti è stata fondata da Paolo Bonomi il 30 ottobre 1944 come sindacato di piccoli imprenditori agricoli. È stata poi retta per moltissimi anni da democristiani, il più noto dei quali, Arcangelo Lobianco, è stato anche Ministro dell’Agricoltura. Quando poteva, ogni volta che poteva, la principale associazione agricola italiana rivendicava di essere un serbatoio di 4 milioni di voti (DC). Era di fatto, una corrente di pensiero sostanziata in una corrente del partito egemone. Oggi, magari, è un po’ diverso, visto che il partito egemone varia ogni tanto. Ma la sostanza non cambia. L’attuale presidente Coldiretti, Ettore Prandini, è figlio dell’ex ministro bresciano della Democrazia Cristiana negli anni del Pentapartito. Quindi, oplà: da corrente di partito, Coldiretti si è trasformata in corrente mediatica erga omnes restando sé stessa. I comunicati che escono dai suoi uffici studi parlano di tutto, ovviamente ruotando intorno ai fatti agricoli. Volete sapere dal TG1 quanti sono i turisti che arrivano in Italia? Quanti vanno a sciare, quanti al mare, all’estero, quanto pagano l’albergo e così via? Immancabilmente il Tele-giornale cita Coldiretti. Volete sapere che cosa mangiano gli Italiani? Ce lo dice Coldiretti. Volete sapere come va il traffico nei giorni di bollino nero? Volete sapere quanti seguono la Santa Messa di Natale in streaming? Volete sapere se il Nutriscore va bene o è una perfida manovra dei burocrati europei? La fonte è sempre la stessa, Coldiretti.
E dove sta il problema? Non ci sarebbe nessun problema se Coldiretti accettasse di essere definita lobby, un’organizzazione che difende i legittimi interessi di una parte con la propria narrazione. Nel 2012, sotto il governo Monti, ci riprovò Mario Catania, come Ministro dell’Agricoltura, a istituire l’obbligo per i lobbisti agricoli di iscriversi in un elenco pubblico. Netta fu la contrarietà di Coldiretti, insieme a quella delle altre due organizzazioni agricole, Cia e Confagricoltura. Il provvedimento fu abortito e mai fu riesumato. Coldiretti, invece, non muore mai.
 
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