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Com’è davvero la situazione dei diritti Lgbtq in Ucraina
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Articolo di Redazione
26 marzo 2022 8:50
 
 Quella dei diritti delle persone Lgbt+ in Ucraina è questione che attira sempre più l’attenzione di media e movimenti da quando è iniziata l’invasione russa. Negli ultimi giorni, in particolare, è rimbalzata ovunque la notizia di donne transgender cui sarebbe stato impedito di lasciare il paese dopo essere state bloccate al confine dalla polizia di frontiera e talora sottoposte anche ad umiliazioni perché ritenute maschi. Trattamento – secondo il Guardian, da cui poi sono dipesi tutti i giornali che ne hanno parlato – riservato anche a chi, avendo ottenuto il cambio legale di genere, aveva esibito relativo certificato valido. Ma mai come in questo caso appare d’obbligo il condizionale.

Particolari e valutazioni, ad esempio, risultano espressamente forniti al quotidiano britannico da un cofondatore di Safebow, organizzazione che Lenny Emson, componente del Kyiv Pride, indica a Linkiesta come «filorussa. Non ci fidiamo di nessuna informazione proveniente da loro. Piuttosto posso affermare con certezza che è stato creato un meccanismo che consente alle persone trans di superare il confine grazie anche al supporto delle associazioni. Si tratta di una precisa procedura per avere la documentazione valida per l’espatrio. Alcune persone trans ci sono riuscite, ma restano molte incertezze».

Secondo il giovane attivista FtM (Female to Male, ndr), «non c’è invece alcuna evidenza di donne trans bloccate al confine e rispedite indietro, in quanto ritenute maschi, a combattere. Cosa poco credibile, tanto più che sono così tante le persone disposte a farlo da dover attendere non poco prima d’essere accettate nell’esercito».

Al contrario, «sono molte le persone trans e non binarie ad essere state arruolate in unità di difese territoriali. Ovviamente c’è preoccupazione per la loro situazione. Non abbiamo casi e statistiche: c’è molta segretezza trattandosi dell’esercito. Siamo preoccupati ma anche orgogliosi che abbiano deciso di combattere per il nostro Paese insieme ad altri rappresentanti della comunità Lgbt+. Orgogliosi di avere tali eroi tra di noi».
È indubbio che in Ucraina le persone trans, la cui condizione risulta particolarmente aggravata con la guerra in corso, debbano vedersi riconosciuti ancora non pochi diritti. Ma su di essi, in particolare per quello che attiene al trattamento della disforia o incongruenza di genere, «i media internazionali in tempo di guerra stanno diffondendo una dannosa disinformazione». A dirlo senza mezzi termini è Kyiv Pride, la più grande associazione ucraina, che ha ieri diffuso un dettagliato comunicato sui social. Per meglio capirne contenuto e motivazioni, è necessario fornire alcuni dati.

Se nel 2011 il Codice civile ucraino è stato emendato per consentire la rettifica anagrafica a persone sottopostesi a intervento chirurgico di riassegnazione di genere, dal 2016 è entrato in vigore un nuovo protocollo di trattamento della disforia di genere grazie a un decreto del ministero della Salute, che con altro provvedimento ha anche abrogato le precedenti disposizioni in materia di riconoscimento legale del genere: non più autorizzazione da parte di una Commissione speciale del dicastero, né degenza di 30-45 giorni in ospedale psichiatrico né diagnosi di transessualità.

Redatto in conformità alla decima edizione dell’International Classification of Diseases (ICD), come osserva il dettagliato comunicato del Kyiv Pride, richiede ancora visita e diagnosi psichiatrica» ma, come viene specificato, «una persona non è obbligata a essere ricoverata in istituto psichiatrico. Dipende dalla regione, ma di solito questa convalida dura circa due settimane di test e consultazioni in appuntamenti con uno psichiatra. Ci sono molti medici amichevoli – psichiatri, endocrinologi, chirurghi – che stanno aiutando le persone trans». Inoltre, sulla base di una sentenza dell’agosto del 2016, che disponeva la rettifica anagrafica di nome e genere per due persone trans senza richiedere loro di sottoporsi a intervento chirurgico, e su quella di un passaggio del protocollo vigente, tale obbligo è venuto di fatto a cadere essendo ritenuta bastevole ai fini del trattamento la sola terapia ormonale sostitutiva.

«Una persona – così ancora il comunicato – dovrebbe portare i propri certificati di diagnosi F64.0 (dell’ICD-10: Transessualismo, ndr) e la consultazione endocrinologica al medico di famiglia e ottenere un certificato che le consenta di ricevere documenti con indicazione del genere in cui ci si identifica. Questo processo può essere lungo, ma è del tutto possibile. C’è una grande quantità di persone trans in Ucraina che ha già ottenuto la transizione legale. Prima dell’inizio dell’invasione russa su vasta scala le organizzazioni Lgbt stavano attivamente lavorando per sostenere la rapida implementazione dell’ICD-11 in Ucraina e abbiamo in programma di continuare quest’impegno dopo la vittoria».

Il riferimento è all’ultima edizione dell’International Classification of Diseases che, entrata in vigore il 1° gennaio scorso, era stata fra l’altro oggetto di un proficuo incontro col ministro della Salute Viktor Lyashko in novembre.

C’è inoltre da sottolineare come l’articolo 2¹ del Codice del lavoro, emendato nel 2015, vieti la discriminazione sul lavoro in ragione dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale. Non meraviglia pertanto il duro j’accuse del Kyiv Pride, per il quale «diffondere informazioni errate crea un’immagine falsa e sfigurata dell’Ucraina come un paese con un trattamento terribile delle persone trans, mancanza di organizzazioni trans locali e nessuna crescita nella difesa dei diritti umani. Gli attivisti ucraini stanno parlando ai media da quando è iniziata l’invasione russa, ma per qualche motivo le nostre voci non vengono ascoltate. Forse è più facile ottenere visualizzazioni se si dipinge il Paese invaso come un luogo infernale per le minoranze. Ma diffondere bugie non è utile alle menzionate minoranze».

Non luogo infernale né tantomeno paradisiaco per le persone Lgbt+, l’Ucraina null’altro è per esse se non un Paese che dal 1991 continua a fare notevoli passi in avanti verso la piena tutela e parità di diritti. Tante ancora le istanze rivendicative da portare avanti, tanti ancora i risultati da raggiungere: secondo l’ultima Rainbow Map di Ilga-Europe, annuale monitoraggio della situazione delle persone Lgbt+ nei 48 paesi del Consiglio d’Europa e in Bielorussia, l’Ucraina è infatti al 40° posto e su una scala di riferimento, che – basata sull’esame di specifiche leggi e politiche vigenti – va da 0 a 100%, si attesta al 18,02.

Dato sicuramente non dei migliori, ma poco perspicuo e per nulla pertinente se avulso dal quadro generale e letto, come è mala prassi, isolatamente. Ben al di sotto del Paese invaso da Putin, Lettonia (17,48%), San Marino (13,41%), Polonia (13,22%), Bielorussia (12,48%) e il Principato di Monaco (11,29%) si collocano in ordine dal 41° al 45° posto. Il 46° è detenuto dalla Russia (9,70%), peggio della quale ci sono solo Armenia (7,49%), Turchia (3,83%) e Azerbaijan (2,33%). Si tenga inoltre in conto che l’Italia è al 35° posto con un punteggio di appena 22,33%, immediatamente preceduta dalla Lituania (22,85%). Anche in considerazione dei punti percentuali il Bel Paese può dunque vantare una ben magra precedenza rispetto all’Ucraina, da cui la distanziano unicamente Moldavia (19,96%), Bulgaria (19,74%), Romania (19,17%), Liechtenstein (18,88%).

È vero che le coppie di persone dello stesso sesso non godono di alcuna forma di riconoscimento legale dei loro rapporti a fronte d’una Costituzione, il cui art. 51: «Il matrimonio è basato sul libero consenso tra un uomo e una donna» pone più d’un ostacolo per il raggiungimento delle nozze egualitarie. È vero che anche nello scorso anno si sono registrati numerosi casi di omotransfobia come documentato dal Report 2022 di Ilga-Europe. Al riguardo la gerarchia non solo delle due Chiese ortodosse ucraine, maggioritarie nel Paese, ma anche della Chiesa greco-cattolica, che ha comunque oltre il 9% di fedeli del totale della popolazione credente (83,5%), non contribuisce a rasserenare gli animi. Senza parlare di gruppi di estrema destra che si sono fatti protagonisti lo scorso anno di alcuni episodi di contestazione violenta.

Non ci gira intorno Lenny. Osserva infatti non senza apprensione come «la nostra principale paura sia quella che organizzazioni omotransfobiche, esistenti in Ucraina da alcuni anni, possano diventare più forti. Temiamo soprattutto che queste associazioni utilizzino questo brutto periodo di guerra per intensificare i loro sforzi contro i nostri diritti e costringerci a tornare non visibili. Stiamo già ricevendo commenti negativi e minacce da parte loro sui social media. Seguiamo i loro gruppi e vediamo quello che succede: sono colmi d’odio contro di noi. Alcuni ci incolpano di sostenere la Russia e cercano di indirizzare la negatività presente nella società ucraina contro di noi. Quindi temiamo che la violenza omotransfobica possa crescere». Eppure, lui stesso ricorda le mete finora raggiunte dalla comunità a partire dallo status giuridico riconosciuto alle associazioni, alla piena libertà nell’espletare attivismo, alla celebrazione dei Pride, ogni anno più partecipati.

E non ci sta a una narrazione, fatta propria anche da strati di movimenti Lgbt+ di altri Paesi, che, noncuranti dei dati Ilga come anche della loro diretta testimonianza, porta a dire o a scrivere: «Non è che stiano meglio di altri» con riferimento, innanzitutto, alla Russia. Ma sono ben noti gli effetti devastanti della legge contro la cosiddetta propaganda omosessuale, fortemente voluta dal Cremlino e promulgata da Vladimir Putin il 30 giugno 2013, oppure gli arresti, le torture, le uccisioni di persone omosessuali e trans pianificate da Kadyrov in Cecenia, repubblica della Federazione Russa, per rendersi già conto dell’inaccettabile superficialità di certe valutazioni.

«Stento a credere – così dice al nostro giornale – che si pongano sullo stesso piano Russia e Ucraina. Nell’ultimo Pride c’erano 7.000 persone. Gli agenti di polizia presenti avevano il solo scopo di proteggerci da eventuali aggressioni. In Russia non solo sono impediti i Pride ma anche manifestazioni stanziali, come a San Pietroburgo nel 2019, vengono sciolte violentemente da agenti, che caricano e arrestano i manifestanti. La differenza sostanziale è che l’Ucraina è un Paese libero». L’attivista transgender fa poi notare che quest’anno ricorrerà il 10° anniversario del Kyev Pride: «Purtroppo, data la situazione, sarà pressoché impossibile poter fare la marcia dell’orgoglio. Prima dell’invasione eravamo certi della realizzazione e stavamo già iniziando a preparare il relativo programma. Avevamo pensato di invitare il presidente Zelensky, sempre sensibile alle nostre rivendicazioni, e speravamo comunque nella partecipazione di un suo rappresentante. Non credo che questo possa non solo avvenire ma essere minimamente pensato attualmente in Russia».

L’aperto supporto del presidente dell’Ucraina alla causa Lgbt+ è d’altra parte tale da essere oggetto di scherno e detrazione da parte degli entusiasti sostenitori di Vladimir Putin e della tesi duginiana della guerra ai corrotti costumi occidentali, massimamente espressi dalla «norma della perversione» ossia dell’omosessualità, di cui si è fatto interprete, il 6 marzo scorso, il patriarca di Mosca Kirill.

Se ne può avere una riprova nella delirante dichiarazione dell’ex nunzio apostolico Carlo Maria Viganò che, nell’elogiare il presidente della Federazione Russa e nel ritenerlo vittima di un complotto dell’élite globalista, vera pianificatrice della guerra, parla di Zelensky come attore comico dalla «performance en travesti […] perfettamente coerenti con l’ideologia Lgbtq che viene considerata dai suoi sponsor europei come indispensabile requisito dell’agenda di “riforme” che ogni Paese deve far proprio, assieme alla parità di genere, all’aborto e alla green economy. Non stupisce che Zelensky, membro del World Economic Forum, abbia potuto beneficiare dell’appoggio di Schwab e dei suoi alleati per arrivare al potere e realizzare il Great Reset anche in Ucraina».

Al riguardo Yuri Guaiana, componente della segreteria nazionale di +Europa e senior campaign manager di All Out, ricorda a Linkiesta che «le dichiarazioni di Putin, del suo ideologo rosobruno Aleksandr Dugin e del patriarca di Mosca Kirill I mostrano chiaramente che ciò di cui più hanno paura sono la democrazia, i diritti umani e le libertà individuali che vanno direttamente contro il suo progetto imperialista, aggressivo, violento e repressivo. Dobbiamo riconoscere che oggi gli ucraini stanno difendendo valorosamente anche le nostre libertà».

Per l’attivista, che nel 2017 fu arrestato a Mosca (con altri quattro) mentre tentava di consegnare al procuratore generale due milioni di firme raccolte contro le violenze cecene, «da quando la Russia ha invaso l’Ucraina anche le persone Lgbt+ stanno vivendo un incubo. Molte persone della comunità Lgbt+ si sono arruolate nell’esercito e alcune si sono offerte volontarie per proteggere la popolazione in città. Altre sono in pericolo immediato e devono lasciare il paese. Per sostenere la resilienza e la sicurezza degli ucraini Lgbt+, All Out ha lanciato una raccolta fondi. Anche una piccola donazione è importante e può salvare delle vite».

Gli fa eco Luca Trentini, attivista e coordinatore Sinistra Italiana – Brescia, che sottolinea come «la situazione dei diritti Lgbt+ in Ucraina era in forte evoluzione prima dello scoppio della guerra. Una società non certo accogliente aveva visto aprirsi spazi di libertà. L’approvazione di due ben Strategie nazionali per i diritti umani, i Pride celebrati a Kiev e in molte città, sebbene militarizzati dalla polizia, facevano pensare a un avvicinamento all’Europa sui temi dei diritti civili. Un cammino ancora lento e segnato da fortissime difficoltà, ma tuttavia presente. Lo scoppio della guerra mette seriamente in pericolo tutto».

Il motivo è da ricercarsi nella strategia in atto da tempo che «vede il governo russo e la stretta cerchia di oligarchi vicini a Putin tra i principali finanziatori dei movimenti pro family che in tutto il mondo, Italia compresa, si muovono per avversare l’evoluzione delle libertà civili. È ipotizzabile che sia proprio sui diritti civili (non certo solo Lgbt+) che Putin possa trovare il fondamento ideologico e religioso su cui costruire un blocco politico, sociale ed economico, ancorato ai valori tradizionali da contrapporre al “corrotto” Occidente».

Che questo possa avere una ricaduta in negativo sulla comunità Lgbt+ ucraina è possibile. Ma al momento le varie associazioni hanno altro a cui pensare. Lenny ci racconta che il Kyiv Pride è impegnato «a offrire sostegno diretto a chi ha bisogno attraverso consegna di cibo e di acqua. Abbiamo poi aperto un rifugio qui nella capitale e aiutiamo chi è stato costretto a lasciare i territori pesantemente bombardati. Abbiamo inoltre un gruppo di psicologi, che assicura assistenza quotidianamente con sedute online».

L’attivista, inoltre, spiega come «nel tempo invasione abbiamo già aiutato oltre 200 persone, creando anche una chat sicura per le persone Lgbt+. Chat, dove si può chiedere o dare aiuto oppure condividere preoccupazioni. Abbiamo infine creato un database relativo ai rifugi in tutta Europa, a cui si può chiedere ospitalità o aiuto per il trasporto dal confine». Ma, conclude Lenny, «lavoriamo soprattutto per tenere alto il morale e sostenere chi combatte, perché siamo fiduciosi di poter ricacciare l’invasore». Che è, in ultima analisi, anche il nostro auspicio.

(Francesco Lepore su Linkiesta del 26/03/2022)

 
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