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Disney, dietro la svolta LGBTQ+ c'è la politica: è l'era del brand activism
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Articolo di Redazione
2 aprile 2022 8:37
 
Dopo il clamore suscitato dal bacio gay nel film “Lightyear”, spin-off dedicato al simpatico Buzz della storica serie “Toy Story”, il brand americano dell’intrattenimento per bambini alza decisamente la posta. Ad annunciarlo è stata la presidente Karey Burke, già produttrice di successi come “The West Wing“, “Will & Grace” e “ER”, la quale cita come motivazione della sua scelta il fatto di essere di due bambini “queer”: uno transgender e uno pansessuale. 

Don’t say gay: la polemica americana (e non solo)
Il dibattito sta tutto su questo aspetto, sia in Italia, dove si stanno muovendo associazioni come Pro Vita & Famiglia, sia negli Stati Uniti. In Florida, dove Disney ha ben 80.000 dipendenti, il governatore Ronald DeSantis ha presentato il disegno di legge “Don’t say gay” (“Non dire gay”: sembra quasi una parodia della Gialappa’s Band…), che vieta di “incoraggiare la discussione sull’orientamento sessuale o l’identità di genere nelle classi elementari”. Il tema è fortemente divisivo. Chi è contrario a questa legge sostiene che si voglia mettere il bavaglio al dibattito su quello che è un aspetto della realtà, mentre chi la sostiene afferma di voler prevenire la presentazione dell’argomento “in un modo non adeguato all’età” dei bambini, dando ai genitori la possibilità di citare in giudizio le scuole che, nonostante il divieto, decidono di parlare di identità di genere nelle classi. 
La scelta annunciata da Disney fa parte di una più ampia campagna chiamata “Reimagine Tomorrow” (“Reimmagina il domani”), che prevede anche altre innovazioni: ad esempio, nei parchi-divertimento brandizzati dai creatori di Topolino non ci si rivolgerà più ai visitatori con il termine “Signore e signori, ragazze e ragazzi”, ma con espressioni neutre quali “amici” e “sognatori”. In questo caso, l’annuncio è arrivato da Vivian Ware, responsabile del reparto diversity and inclusion, una funzione che anche nelle aziende italiane ed europee sta prendendo sempre più piede, con scelte che fanno altrettanto discutere. 

Dalla CSR al brand activism
Il mondo sta cambiando, questo è evidente, e sempre più aziende prendono posizione su temi divisivi, nel nome del brand activism che sta gradualmente soppiantando la più classica e rassicurante CSR (Corporate Social Responsability): oggi non basta più dimostrare responsabilità sociale, ma bisogna fare scelte di campo sui temi identitari ed etici – se non politici - che più stanno a cuore al proprio target, a costo di scontentare qualcuno. Perché queste scelte producano il risultato sperato, però, bisogna che siano autentiche e coerenti con i valori realmente promossi dall’azienda in questione. A questo proposito, è impossibile notare che, mentre Disney si vanta di “aggiungere queerness” alle sue produzioni e di voler far sentire “tutti benvenuti” nei propri parchi a tema, i suoi dipendenti LGBTQ+ hanno manifestato alcune perplessità. Solo pochi giorni fa, una lettera pubblicata dal giornalista Judd Legum e attribuita appunto ai lavoratori della Pixar (brand di Disney) accusava la casa madre di censurare “ogni scena di affetto gay”. Proprio in ragione del progetto di legge “Don’t say gay”, secondo questa tesi, le forbici sarebbero scattate “anche quando creare contenuti LGBTQ+ era la risposta giusta per contrastare legislazioni discriminatorie nel mondo”. Alla richiesta di risposte avanzata dagli autori della denuncia, il CEO Bob Chapek ha replicato che l’azienda è "inequivocabilmente dalla parte dei nostri impiegati LGBTQ+, delle nostre famiglie e delle loro comunità" e che Disney "si impegna a creare un'azienda, e un mondo, più inclusivi".

I personaggi Disney nella contesa politica
Ma non basta. Un aspetto fondamentale del brand activism consiste nell’esprimersi anche su temi di interesse generale, che non riguardano direttamente la propria attività aziendale. Per questo la comunità LGBTQ+ ha fatto pressioni sulla Disney affinché scendesse in campo per contestare apertamente il progetto di legge “Don’t say gay”, richiesta alla quale Chapek ha risposto in maniera eloquente: "Anche se abbiamo supportato con decisione la comunità per decenni, so che molti sono rimasti turbati perché non ci siamo opposti pubblicamente alla legge. Ma siamo stati contrari fin dall'inizio, solo che abbiamo scelto di non prendere una posizione pubblica perché ci è sembrato più efficace lavorare da dietro le quinte con legislatori di entrambi i partiti". 
Il CEO ha anche raccolto 5 milioni di dollari in donazioni per Human Rights Campaign, organizzazione che difende i diritti LGBTQ+, la quale però ha sorprendentemente rifiutato il ricco assegno, chiedendo alla Disney un’azione “più concreta” e lamentando il fatto che nessun parco-divertimenti dell’azienda abbia ospitato un’edizione del Pride fino al 2019, quando fu il Disneyworld di Parigi a infrangere il tabù. Visto che per qualcuno la conversione è un po’ troppo recente per non suonare sospetta, Disney ha deciso di spazzare via ogni dubbio con una scelta di campo che più radicale di così non poteva essere, ovvero introducendo le tematiche LGBTQ+ nel proprio core-business: il film e le animazioni che da un secolo fanno sognare i bambini di ogni età.
Una decisione che inevitabilmente fa e farà discutere, ma che fa parte del marketing moderno: fondata nel 1923, Disney l’anno prossimo festeggerà i suoi primi cento anni di successo e, piaccia o meno, non si può dire che non abbia saputo mettersi al passo con i tempi.

(Lorenzo Zacchetti su Affari Italiani del 01/04/2022)
 
 
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