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Messico. La ‘invenzione’ del narco
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Articolo di Redazione
25 aprile 2022 16:55
 
Le parole non sono mai innocenti: come ammoniva il filosofo John Austin, producono cose. Non solo mascherano la realtà, ma la creano, attenendosi a discorsi che non sono nostri, ma di potere. Se nel suo affascinante “I cartelli non esistono” (2018), Oswaldo Zavala ha mostrato come i cittadini siano caduti nella trappola di presumere l'esistenza di questi potentissimi gruppi criminali come i principali nemici dello Stato, nel suo ambizioso “La guerra nelle parole. Una storia intellettuale del 'narco' in Messico (1975-2020)”, va oltre: tutte le nostre idee sul narcotraffico, e in particolare sulla guerra scatenata contro di esso, provengono dalla narrazione articolata dagli Stati Uniti dalla fine del Seconda Guerra Mondiale.
Anche il narco, in questo senso, non esiste: è un'invenzione politica, nata da criteri di sicurezza nazionale imposti da Washington e che, almeno dal gennaio 1977 -data con cui inizia la sua storia-, il Messico ha cominciato ad adottare ufficialmente come il loro. Sottoponendosi alle pressioni diplomatiche dell'amministrazione Gerald Ford, José López Portillo e il suo Procuratore Generale della Repubblica, Óscar Flores Sánchez, hanno quindi lanciato la Condor Task Force, volta a combattere la semina e il traffico di droga nel cosiddetto Triangolo d'Oro. Un'operazione che, negli alti e bassi agrodolci della storia, è stata coordinata dal giovane Alejandro Gertz Manero, oggi Procuratore Generale della Repubblica.

Da quel momento in poi, la narrazione secondo cui è essenziale utilizzare l'esercito per combattere i trafficanti di droga è radicata al centro della vita politica messicana. Sebbene, come documenta Zavala, allora gli interventi per distruggere e sequestrare marijuana e papavero si limitasseroo alle operazioni contro i contadini preposti alla coltivazione, mentre i veri colpevoli erano protetti dall'alto comando militare, il germe della successiva catastrofe era già lì. Credere a prima vista che le droghe costituiscano la più grande minaccia per lo Stato articola infinite strategie che modificano radicalmente l'azione di quello stesso Stato.

È allora che si forma la scomoda alleanza tra la DEA e la Direzione federale della sicurezza, che imporrà quello che Agamben definisce uno stato di eccezione permanente: l'uso sfacciato della forza che non tiene conto di alcuna disposizione civile. Paradossalmente, fino alla fine del regime del PRI, nel 2000, in questa logica, lo Stato messicano vigila e regola il traffico in una PRI pax che concilia i suoi interessi con quelli dei criminali che protegge e molesta.

Nascono così le prime rappresentazioni mainstream dei narcotrafficanti che raggiungeranno il protagonismo assoluto delle operazioni congiunte lanciate da Calderón nel 2006: nemici sanguinari che, come i terroristi che distrussero le Torri Gemelle, è urgente annientare. Il potere inventa i suoi rivali per nascondere il fatto che, nella maggior parte dei casi, il numero crescente di morti avviene proprio nelle zone dove sono dispiegate le Forze armate. L'imposizione di questo mito giustifica la militarizzazione del Paese che proseguirà fino ad oggi.

Se Peña non fa altro che abbassare un po' il volume del discorso bellico senza alterare la strategia, López Obrador fa qualche passo avanti - oggi reso visibile con la chiusura dell'unità investigativa speciale della DEA in Messico - solo per tornare ancora più indietro. Da un lato modifica la narrazione e cerca di concentrarsi sulle cause delle violenze, dall'altro estremizza la militarizzazione estesa a tutti i settori del suo governo e ignora la riforma del sistema giudiziario. Paradossalmente, stiamo entrando in un'era senza guerra - senza parole di guerra - in cui l'esercito è ovunque. Con AMLO lo stato di eccezione permanente diventa ancora più perverso: ora il "popolo in divisa" si trova, con e senza divisa, in ogni angolo dove lo Stato ha un posto.

(Jorge Volpi, Mural del 23/04/2022)
 
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