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'I populisti hanno una visione passiva del popolo'. Jan-Werner Müller
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Articolo di Redazione
6 novembre 2018 16:06
 
 Difficile identificare un populismo autentico se si dà credito a Jan-Werner Müller, storico delle idee e autore di “Qu’est-ce que le populisme?” (Premier Parallèle). Anche se le nuove destre estreme condividono, secondo lui, un profondo antipluralismo.
D. Dopo la Turchia, le Filippine, gli Usa, l’Ungheria e l’Italia, il Brasile ha eletto un leader nazionalista e apertamente xenofobo. Quale comune denominatore ci può essere in queste svariate espressioni del populismo di estrema destra?
R. Bisogna diffidare dell’immagine di un’ondata populista unificata e quasi irresistibile. I contesti nei quali emergono sono molto differenti, e le loro cause non sono necessariamente le stesse. Tuttavia, tutti questi populismi hanno in comune la rivendicazione morale di un monopolio della rappresentatività. Erdogan in Turchia, Modi in India, Salvini in Italia, Orban in Ungheria, Trump o Bolsonaro, tutti pretendono di incarnare la voce di quelli che loro chiamano il “vero popolo”. Essi stabiliscono, prima di tutto, l’immagine di un popolo “veritiero” a partire dal quale deducono la sua autentica volontà. Nei suoi discorsi, Trump invoca costantemente questa retorica dell’appartenenza ad un popolo o ad una cultura basata su criteri morali, che nel suo caso si scontrano spesso con l'ideologia produttivista; l’idea che il popolo virtuoso è costituito da piccoli produttori mentre gli altri, gli immigrati, approfittano del sistema. Questa caratterizzazione morale è la sola condizione di per sé a permettere il passaggio da una rappresentazione empirica della volontà ad una rappresentazione simbolica, populista.
D. Sono necessariamente populisti perché parlano di popolo?
R. Ogni politica è legittima per dare la propria visione del popolo che pretende di poter governare. Solo che, nei populisti, l’immagine del popolo è imposta, omogenea, fissa e non discutibile. E’ una concezione puramente teorica che non può empiricamente essere validata. Da cui la loro tendenza a dichiarare il sistema elettorale “fraudolento” quando perdono una tornata elettorale. Prima di essere eletto presidente, Trump aveva fatto sapere che non avrebbe accettato il risultato dell’elezione se non in caso di vittoria. Bolsonaro ha dichiarato che non avrebbe riconosciuto la propria sconfitta. Tutti i populismi condividono questa negazione della pluralità delle opinioni in seno alla democrazia rappresentativa.
D. Nella pratica, come si manifesta questo “antipluralismo”?
R. I populisti rimettono in causa tutto ciò che si fonda sull’infrastruttura politica dopo il XIX secolo. Innanzitutto diffidano dei giornalisti e dei media tradizionali. Durante la campagna presidenziale in Brasile, Bolsonaro ha aggirato i media mainstream in virtù di un intenso uso delle reti sociali, soprattutto WhatsApp.
Aggirando i media di massa, essi stabiliscono un rapporto diretto col “popolo” ed hanno successo facendo uscire il proprio partito da posizioni marginali. Questo rifiuto dei giornalisti va di pari passo con quello delle logiche democratiche, dove la partecipazione dei militanti è spesso relegata all’acclamazione del leader. I populisti rifiutano quella che si chiama “democrazia bipartisan” dove la volontà autentica del popolo è oggetto del dibattito, e rischia quindi, ai loro occhi, di essere deformata. Per loro è preferibile che nessuno interferisca coi dirigenti e i loro affiliati. Questo antipluralismo di principio lo si trova in modo evidente nel Partito per la libertà di Geert Wilders nei Paesi Bassi, movimento creato al servizio esclusivo del suo fondatore e il cui controllo dello stesso fa riferimento a lui medesimo, così come per Marine Le Pen o Erdogan.
D. In alcuni casi, questo antidemocraticismo va ben oltre le frontiere del movimento…
R. Questa logica prevale effettivamente anche al di fuori del partito. In Ungheria, Orban ha rifiutato di partecipare ai dibattiti televisivi per le elezioni del 2010 e quelle del 2014 sostenendo: “Noi oggi non abbiamo bisogno di dibattiti su questioni politiche specifiche, le soluzioni sono evidenti, ce le abbiamo sotto gli occhi”. Ultimamente, Bolsonaro ha riconosciuto che lui non avrebbe preso parte a nessuno dei confronti televisivi prima dello scrutinio, tra i quali il dibattito tra i due turni con il suo avversario del Partito dei lavoratori, per “ragioni strategiche”. Perché dovrebbero esserci dei dibattiti quando la volontà del popolo è chiaramente riconoscibile e i dirigenti del partito sono in grado di perfettamente individuarla?
D. Non c'è un paradosso tra l'appello ripetuto al popolo e l'affermazione di avere ragione per esso?
R. In realtà, i populisti hanno una visione molto passiva del popolo. Dire che essi vogliono la democrazia diretta e la partecipazione permanente dei cittadini, è falso. E’ un dato di fatto che in Ungheria, in Polonia e in Usa, i populisti al potere non hanno fatto assolutamente niente per migliorare le possibilità di partecipazione dei cittadini alla democrazia. Il loro stesso concetto di referendum differisce da quello dei democratici. In teoria, questo voto si riferisce ad una questione aperta e nello stesso tempo incerta. Ma nella visione populista, non c’è lo scopo di validare l’idea che ci si è fatta dell’opinione maggioritaria. Finisci per manipolare il suo risultato.
D. Bolsonaro è riuscito a convincere due tipi di elettori opposti fra di loro, i molto poveri e i molto ricchi allo stesso tempo. Sarebbe sbagliato dire che i populisti prosperano sul risentimento?
R. Evidentemente tutti gi elettori dei partiti populisti non sono razzisti e xenofobi. Certo, in Francia, Marine Le Pen attira una buona parte del suo elettorato nelle zone popolari e operaie, dove il sentimento di estremo abbandono può portare al rigetto dell’altro. Ma non si può generalizzare questo a tutti i Paesi. Bolsonaro ha approfittato del sostegno dei circuiti conservatori, evangelici e di quelli dell’agrobusiness che non sono di per sé populisti. Per quanto riguarda gli elettori, ha avuto il suo miglior guadagno presso coloro che avevano un alto reddito e un buon livello scolare. La politologa Karin Priester mostra nelle sue ricerche che i cittadini votano più in funzione di un giudizio che si fanno dello stato generale del Paese che non in base alla loro situazione personale. Più globalmente, il voto per un leader populista non rappresenta il desiderio in sé di populismo, ma un voto negativo contro il potere vigente. E questo pone il problema dell’alternativa. Tra la tecnocrazia e il populismo, nessun altra scelta politica viene fuori.

(Intervista di Simon Blin pubblicata sul quotidiano Libération del 06/11/2018)
 
 
 
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