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CARTA DI TREVISO E MINORI .. DI BAGHDAD. MA CHI SI VUOLE TUTELARE?
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La pulce nell'orecchio di Annapaola Laldi
1 aprile 2003 0:00
 
Una delle prime sere di questa guerra ascoltavo alla radio "Zapping", una trasmissione in cui, con l'intervento del pubblico e di alcuni ospiti, di solito giornalisti, vengono commentate le notizie fornite dai titoli di apertura dei telegiornali. A un certo punto il discorso fu portato sulle fotografie di bambini feriti a Baghdad, che erano apparse su alcuni giornali italiani. Uno degli ospiti, di cui non ricordo il nome, mise in dubbio la liceita' della pubblicazione di queste immagini, chiamando in causa la "CARTA DI TREVISO" (vedi allegato), una sorta di codice di autoregolamentazione dei giornalisti sull'informazione che coinvolge i minori. In essa, tra l'altro, si garantisce L'ASSOLUTO ANONIMATO del minore tanto nel caso che sia l'autore o la vittima di reati (cosa peraltro pretesa da appositi articoli dei nostri codici di procedura penale), tanto in quello che sia (stato) protagonista di altri fatti di rilievo per l'informazione, quali, per esempio, il suicidio, questioni relative a adozione o affidamento, il legame di parentela con adulti arrestati o condannati, ecc.

Oggetto di "ripetute violazioni", quei principi furono richiamati e ribaditi nel 1995 col "VADEMECUM '95" (vedi allegato), in cui si danno indicazioni pratiche su che cosa i giornalisti NON DEVONO FARE quando negli avvenimento di cui si occupano sono coinvolti dei minori. Una delle indicazioni e' questa: "Nel caso di bambini malati, feriti o disabili, occorre porre particolare attenzione nella diffusione delle immagini e delle vicende al fine di evitare che, in nome di un sentimento pietoso, si arrivi a un sensazionalismo che finisce per divenire sfruttamento della persona".

Credo che sia questo il punto a cui il giornalista di "Zapping" faceva riferimento.

Trovo molto interessante e seria l'indicazione che ho appena riportato, e sono convinta che non andrebbe riservata ai bambini, ma estesa a tutte le persone, perche' il rispetto della persona che non si puo' difendere, a me sembra doveroso e primario. E certamente i feriti, i malati, un certo tipo di disabili, cosi come, del resto, i morti -qualunque sia la loro eta'-, non hanno la possibilita' di dire NO al fotografo o all'operatore televisivo. La loro intimita', proprio nel momento della massima vulnerabilita', e' violata, il loro pudore offeso. Oltre alle ingiurie della natura o della violenza umana nella loro carne tocca loro subire anche questa ennesima violenza non meno grave delle altre: diventare, con la propria miseria, con la propria disperazione, uno spettacolo per gli altri. E poco conta che le immagini vengano mostrate "a fin di bene", cioe' per muovere a compassione e convincere singoli individui, popoli o governi a dare un aiuto. Anche perche' bisognerebbe chiedersi in quanti casi la buona intenzione sia andata piuttosto a lastricare la via dell'inferno.
Come accadde, per esempio, con l'operazione "Restore hope", fra il 1992 e il 1994 , che, pretendeva di restituire la speranza alla Somalia afflitta da una grave carestia e siccita', oltre che dalle guerre interne, e che invece la lascio' in condizioni, se possibile, peggiori di prima. Ebbene, all'inizio di quell'intervento la categoria dei fotoreporter si attribui' il merito di aver fatto scattare l'operazione "umanitaria": si disse, infatti, che era stata proprio la fotografia tragica e tremenda di un corpo umano rattrappito e abbandonato in un desolatissimo paesaggio, a richiamare l'attenzione dell'Occidente benestante sulle misere condizioni del paese africano e a convincere l'ONU a intervenire (Se poi la stessa categoria, da come andarono in realta' le cose in Somalia, abbia tratto qualche insegnamento sulla costante ambivalenza delle azioni umane e' cosa che non so).

E poi: le immagini di corpi straziati, di volti deformati dal terrore e dalla disperazione, rende davvero piu' sensibile l'animo di chi li osserva? O non puo' accadere che, proprio al contrario, per una sorta di autodifesa, non si metta in movimento un fenomeno di anestetizzazione tale da finire con l'annullare del tutto la sensibilita'?
Il rispetto della vittima e il rispetto per la mia fragile forza interiore mi fanno dunque essere molto d'accordo con un uso sobrio delle immagini di sofferenza, ma quell'ospite di Zapping" che si appella alla "Carta di Treviso" per stigmatizzare la diffusione delle fotografie dei bambini iracheni martoriati dalla guerra, quando questo documento trova scarsissima applicazione qui da noi, e quando, soprattutto, stampa e televisione fanno a gara, in ogni occasione, a lanciare immagini raccapriccianti, mi sembra proprio una nota stonata.

Che senso puo' avere invocare l'applicazione della "Carta di Treviso" proprio a proposito dell'informazione della guerra contro l'Iraq? Sara' la diffusione della loro immagine a "influenzare negativamente" la crescita di quei bambini o a "incidere sullo sviluppo armonioso della loro personalita'"?
Mi pare sussista qualche motivo di dubbio.
Ma, allora, perche' tutta questa sensibilita', adesso, per i minori iracheni?
E' davvero per tutelare loro?
O non potrebbe essere, piuttosto, per tutelare noi, il nostro tentativo di continuare a vivere come se niente fosse? Magari per non dover sentire, trasformate in sarcastico commento alla situazione attuale, le parole della "Dichiarazione dei diritti del fanciullo dell'ONU" (vedi allegato) del 1959:
"Considerato che L'UMANITA' HA IL DOVERE DI DARE AL FANCIULLO IL MEGLIO DI SE STESSA.."; oppure "il fanciullo deve essere protetto contro ogni forma di negligenza, di crudelta' o di sfruttamento" (principio 9), o ancora: "Il fanciullo, per lo sviluppo armonioso della sua personalita' ha bisogno di amore e di comprensione. Egli deve, per quanto e' possibile, crescere sotto le cure e la responsabilita' dei genitori e, in ogni caso, in atmosfera d'affetto e di sicurezza materiale e morale." (principio 6).
O anche, soprattutto, perche' non vogliamo rischiare di scorgere nei volti bruciati e tumefatti di questi piccoli estranei, come in una dissolvenza cinematografica, l'immagine dei nostri bambini?

Ma non potremmo esporci, per una volta, sul serio a questi sguardi di dolore, lasciarci interrogare da essi e vedere se, per caso, non richiamino un uguale dolore dentro di noi? Un dolore che resti disarmato e non diventi angoscia che cerca alla cieca un'arma per difendersi. Non potrebbe la vista, allora, farsi piu' chiara? Non potremmo, in tal caso, vedere nitida davanti a noi la strada della compassione -l'unica- che puo' impedire che anche i nostri bambini siano travolti dall'odio, e che questo orrore e terrore, a cui adesso assistiamo ancora solo come a uno spettacolo che si svolge su un set lontano, non trabocchi fuori dal piccolo schermo per prenderci nel suo vortice, davvero senza se e senza ma? Non varrebbe la pena provare? Ora. Subito. Il tempo si sta paurosamente accorciando.


Note
La "Carta di Treviso" fu firmata nella citta' veneta il 5 ottobre 1990 dal Consiglio nazionale dell'ordine dei giornalisti, dalla Federazione nazionale della stampa italiana e da Telefono azzurro.
In essa si dichiara di voler "assumere i principi ribaditi nella Convenzione Internazionale del 1989 sui diritti dell'infanzia" (vedi allegato), che sanciscono il diritto e la necessita' del bambino di crescere in un'atmosfera di comprensione, con particolari cure e assistenza, rispetto della sua privacy e attenzione per il suo interesse a crescere armoniosamente, interesse a cui tutti gli altri interessi devono essere sacrificati. La "Carta" riporta inoltre una citazione dell'art.13 del Codice di procedura penale per i minorenni in cui si pone il "divieto di pubblicare e divulgare con qualsiasi mezzo notizie o immagini idonee a identificare il minore comunque coinvolto nel reato" e uno stralcio dell'art.114 (comma 6) del nuovo Codice di procedura penale.

Il "Vademecum '95" fu stilato alla fine del Convegno "Il bambino e l'informazione", tenuto a Venezia e a Treviso dal 23 al 25 novembre 1995, dagli stessi soggetti del 1990, proprio "in considerazione delle ripetute violazioni" della Carta di Treviso. Esso elenca cinque regole di comportamento (quella che ho citato e' la quinta) e riporta in calce gli articoli 13, 16 e 17 della Convenzione internazionale sui diritti dell'infanzia firmata a New York il 20 novembre 1989, nonche' il testo completo del comma 6 dell'art.114 del nuovo Codice di procedura penale (DPR 22 settembre 1988, n. 447), in cui si dice: "E' vietata la pubblicazione delle generalita' e dell'immagine dei minorenni testimoni, persone offese o danneggiate dal reato fino a quando non sono divenuti maggiorenni. Il Tribunale per i minorenni, nell'interesse esclusivo del minorenne, o il minorenne che ha compiuto i sedici anni, puo' consentirne la pubblicazione".

L'Operazione "Restore Hope" (ridare speranza) inizio' nel dicembre 1992 sotto l'egida dell'ONU. Vi parteciparono anche 2600 militari italiani insieme a quelli di altre 16 nazioni. Nei quindici mesi che duro' vi furono parecchi caduti in tutti i contingenti ONU e un numero elevatissimo di vittime fra la popolazione somala gia' tanto provata per la siccita' e la carestia.
Dubbi furono sollevati sulla legittimita' di alcune operazioni militari e sul comportamento tenuto in alcuni casi verso i civili anche da parte di alcuni soldati italiani. Mentre era in corso il ritiro del contingente italiano (marzo 1994) fu assassinata a Mogadiscio la giornalista Ilaria Alpi e l'operatore Miran Hrovatin, delitto che continua ad avere risvolti oscuri.
 
 
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