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Donne insieme per la pace
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La pulce nell'orecchio di Annapaola Laldi
18 marzo 2024 16:48
 
Il 7 marzo 2024 si è svolta a Firenze, in Palazzo Vecchio, una delle iniziative all’insegna di “Pace e giustizia in Medio Oriente”, dal titolo "Abbattere i muri e costruire i ponti ". Fra le altre persone, ha preso la parola Marisa Nicchi (Grosseto 1954) che ha una lunga storia di militanza politica, prima nel PCI, poi nell’ULIVO e in SEL; più recentemente, anni Duemila, fondatrice del “Giardino dei ciliegi” di Firenze. Il suo intervento è stato diffuso dall’Associazione “Libere Tutte” di Firenze con l’invito a diffonderlo ulteriormente. Cosa che faccio volentieri.
Ho ricevuto la mail da un’amica molto interessata a ciò che accade nel Vicino Oriente e, dopo averlo letto e “meditato”, ho deciso di trascriverlo qui, perché, per quanto lungo e impegnativo, ha al centro il rifiuto dello schierarsi dall’una o l’altra parte e la fiducia incrollabile che ogni guerra sia evitabile, come si legge in questo fondamentale passaggio:
Pace sta diventando parola considerata impraticabile, ciò che conta è l’urgenza di schierarsi da una parte o dall’altra in guerra. Noi, invece, continuiamo a pensare che la guerra e tutte le guerre siano evitabili, non siano ineluttabili e che un altro modo di pensare e agire è possibile. Pensarlo e agire di conseguenza è già metterlo e tenerlo in vita. Abbiamo scelto una differente postura, innanzitutto sottraendoci dalla logica amico/nemico da uccidere, da annientare”.
Ecco dunque il testo integrale, senza interferenze, salvo il link che spiega che cosa è l’UNRWA. Mi auguro che trovi buona volontà e attenzione per riflettersi sopra.
                                                                                                         Annapaola Laldi
 
 
 
“Siamo una voce tra le tante che agiscono nella società per reclamare e promuovere il dovere della pace. Una voce al momento inascoltata dai potenti del mondo che corrono a rotta di collo ad armarsi sempre di più, rompendo remore e indugi.
Siamo nate all’indomani dell’invasione di Putin, quando, nel cuore dell’Europa si è mostrata in tutta la sua pericolosità la posta in gioco che incombe sul mondo: la contesa tra le potenze, all’insegna della guerra, del riarmo e della minaccia nucleare, per stabilire un nuovo ordine mondiale.
Di recente, è stata Ursula von der Leyen ad affermare che in Europa la pace è finita, che la guerra "non è imminente, ma non è impossibile” e per questo si devono produrre armi come vaccini. Noi diciamo diversamente: se la guerra è probabile lavoriamo per scongiurarla.
Siamo allarmate, invece, per la china su cui sta scendendo l’umanità: impegnare risorse ingenti per la follia della guerra, la massima espressione della volontà di dominio e sopraffazione, la negazione assoluta di ogni principio di civile convivenza.
Stiamo perdendo la memoria: se ci lasciamo invadere dal mito della guerra, del nemico, della vittoria, del “mors tua vita mea”, non c’è futuro, si torna indietro e si regredisce.
L’Europa come soggetto politico per la coesistenza pacifica, per l’accoglienza, per la giustizia, per lo sviluppo sostenibile e il multilateralismo, sembra essere alle nostre spalle. Dimentica di quel “mai più“ a guerra e a ogni persecuzione collettiva assunto dopo i due conflitti mondiali e la Shoà.
Pace sta diventando parola considerata impraticabile, ciò che conta è l’urgenza di schierarsi da una parte o dall’altra in guerra. Noi, invece, continuiamo a pensare che la guerra e tutte le guerre siano evitabili, non siano ineluttabili e che un altro modo di pensare e agire è possibile. Pensarlo e agire di conseguenza è già metterlo e tenerlo in vita. Abbiamo scelto una differente postura, innanzitutto sottraendoci dalla logica amico/nemico da uccidere, da annientare.
Da femministe, il nostro pacifismo è una critica radicale alla violenza come strumento di relazioni umane e di risoluzione dei conflitti o, addirittura, di presunti scontri di civiltà. Ci siamo schierate dalla parte di chi subisce guerra e terrorismo, dalla parte delle popolazioni civili.
Con l’abominio dell’attacco terrorista di Hamas, e la punizione collettiva del Governo d’Israele, sproporzionata, senza limiti, si è persa ogni residua distinzione tra civili incolpevoli e azioni militari. Sono davanti ai nostri occhi una sequenza di “orrorismi”, come li ha definiti la filosofa Adriana Cavarero, che colpiscono gli inerti, il 90 percento della popolazione. A Gaza dove si muore da mesi di bombe, di sete, di fame, di malattie, di abbandono, di attesa di soccorsi bloccati dal Governo di Israele al valico di Rafah, situazione atroce denunciata sul posto dalla delegazione di parlamentari e della società civile. In Israele dove sono tornate a sanguinare le ferite dei pogrom, dove è stato praticato e incitato lo stupro e l’oltraggio mirato ai corpi di donne. Quei tipi di crimine taciuti, spesso sminuiti nel loro significato tra le tante atrocità.
A Gaza, le donne sono costrette in una condizione disumana: uccisione dei propri affetti, gravidanze e parti tra bombardamenti, condizioni igieniche e sanitarie terribili per la loro salute riproduttiva. Per la loro dignità. Pensiamo alle donne incinte che partoriranno. In quale condizioni metteranno al mondo le nuove vite? Così come alle immani sofferenze di bambine e bambini.
L’UNRWA  ha dichiarato che «Il numero di bambini uccisi in poco più di 4 mesi a Gaza è superiore al numero di bambini uccisi in 4 anni di guerre in tutto il mondo. Questa guerra è una guerra contro i bambini. È una guerra contro la loro infanzia e il loro futuro». Quei corpi straziati, rapiti, traumatizzati per sempre sono l’essenza dell’indicibile.
E’ la guerra si dice, con i suoi effetti collaterali da mettere in conto e da cui è bandito ogni discorso umano per le perdite di vita, per la distruzione dell’ambiente sociale, culturale, naturale.
Noi ci sottraiamo a questa scarnificazione delle menti e del linguaggio. E per questo, prima di tutto e malgrado tutto, chiediamo: cessate il fuoco. A Gaza, ovunque.
Semi che, nel nostro piccolo, immettiamo in una scena pubblica e politica, da una parte infuocata di bellicismo per vittorie totali, e, dall’altra, bloccata dall’ impotenza e dalla rassegnazione.
Ci siamo avvalse del pensiero femminista che spinge al cambiamento di civiltà umana per affermare una soggettività femminile libera, autonoma e differente. E’ impensabile, in un contesto di tanta violenza, essere come gli uomini e alla pari degli uomini.
Come diceva Virginia Woolf in “Le tre ghinee”: “Il modo migliore per aiutarvi a prevenire una guerra non è di ripetere le vostre parole e seguire i vostri metodi, ma di trovare nuove parole e inventare nuovi metodi”.
Il movimento delle donne ha dimostrato di aprire conflitti senza voler cancellare l’altro, senza spargere sangue; parla di cura del vivere, della necessità del convivere, di relazioni umane improntate al rispetto, all’ autonomia e alla responsabilità. Ci ispira la forza straordinaria delle donne che emerge pacifica e inarrestabile a ogni latitudine del mondo che mette in discussione culture, religioni, equilibri sociali e di potere, che non perde coraggio anche laddove vigono i fondamentalismi di Stato con loro violenta misoginia. Come dimostra la sfida delle donne iraniane.
Ricordiamo, le attiviste ebree e arabe che hanno osato lavorare insieme per chiedere un accordo di pace e che per questo hanno marciato, anche poco prima del 7 ottobre, e lanciato un appello a tutte le donne del mondo per fermare la follia della distruzione reciproca. Non dobbiamo permettere che quel messaggio sia spazzato via dagli estremismi violenti di Hamas e del Governo israeliano. E’ la preziosa testimonianza che convivere è possibile anche in quella martoriata terra.
Anche qui a Firenze ci sono state esperienze con questo importante significato. Nel 2014, anch’esso anno di guerra in Palestina, è nato un gruppo di donne ebree israeliane, della comunità ebraica, arabe, palestinesi della comunità islamica, aperto a tutte senza distinzione di religione e di provenienza. Il gruppo ha lavorato per anni, e “facendo cose insieme”, come per esempio preparare il pane, hanno creato le condizioni di dialogo, conoscenza, vicinanza reciproca nelle proprie differenze.
Emerge tutto il valore della non violenza che tanti cambiamenti storici ha determinato, che si potrebbero raccontare se la memoria volesse proporli alle nuove generazioni. La proficuità del valore del dialogo, della necessità della politica che mette in gioco tutti i mezzi a sua disposizione per prevenire, mediare e non far precipitare i conflitti: diplomazia, economia, apparati di sicurezza, forze di interposizione, scambio culturale, dialogo inter religioso, cooperazione internazionale.
E anche una più forte e convinta “diplomazia dal basso” che veda, protagoniste attive insieme alla società civile, le istituzioni locali come il Consiglio Comunale di Firenze sta proponendo.
Non tutte le donne sono estranee alla guerra, accade spesso che quando una donna si trova in un posto di potere tenda a stare “all’interno della logica dei rapporti di forza”, e  a questo proposito numerosi esempi si possono fare. Tuttavia, ancora le guerre sono un affare soprattutto di uomini e rappresentano il lascito maschile più tragico che il sesso maschile ha dato alla convivenza civile. Avventure senza ritorno, con la spirale di odio che ne è alla base, con quel virilismo mortifero, quella mascolinità bestiale motore delle violenze sessuali perpetrate in tutti gli scenari di guerra.
Ci può aiutare il riferimento a una genealogia di pensatrici: Simone Weil, Hannah Arendt, Luisa Muraro, Virginia Woolf, Rosi Braidotti, Judith Butler, la nostra autorevole concittadina Carla Lonzi e tante altre.
Dalle donne viene una forza per un nuovo umanesimo che non riduca tutto ad uno, che si proponga la costruzione di nuove relazioni umane nel rispetto della molteplicità e la varietà della vita.
Solo così si potrà dare alla pace una nuova possibilità”.
 
 
 
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