Ami Ayalon in Israele non è uno qualunque.
Dal 1996 al 2000 è stato capo dei servizi segreti dello Shin Bet che, con Aman e Mossad, fa parte dei servizi segreti israeliani ed è subordinato direttamente al Primo Ministro. Il suo motto è: “Scudo invisibile".
Ami Ayalon, che in precedenza era stato comandante in capo della Marina, dopo il congedo dallo Shin Bet, nel 2003, aveva lanciato, col professore palestinese Sari Nusseibeh, un’iniziativa di pace chiamata “The People’s Voice” e nel 2007 aveva tentato, senza successo, la carriera politica nel Partito Laburista.
Adesso abita a Kerem Maharal, un insediamento agricolo, sul versante meridionale del Monte Carmelo, nel Nord di Israele, che venne costruito dove prima c’erano i villaggi palestinesi di Ijzim e Khirbat Al-Manara, occupati dall’esercito israeliano durante la guerra del 1948.
Come vedremo tra poco, egli è un critico severo del governo Netanyahu, della sua politica e della gestione della guerra a Gaza.
Il 14 novembre u.s., su “La Stampa” è comparsa una sua intervista rilasciata alla giornalista Francesca Mannocchi, alla quale attingerò per far capire l’evoluzione del pensiero di questo ebreo israeliano, il che, a persone dotate di un minimo di onestà intellettuale, dovrebbe far capire quanto sia assurdo avercela con gli Israeliani in toto e quanto sia ancora più assurdo, anzi, delittuoso, inneggiare all’antisemitismo, vedendo in tutti gli ebrei dei nemici.
Ma subito voglio mettere in primo piano il nucleo essenziale della convinzione di Ami Ayalon, quella che sta nel titolo di questo articolo: finché per i Palestinesi non c’è speranza di avere un futuro in quella che è anche la loro terra, finché penseranno di non avere niente da perdere, essi continueranno nella lotta contro Israele. La fine della guerra, la salvezza di Israele sta proprio nel dare una speranza di vita dignitosa e libera ai Palestinesi. Questa è la vera democrazia da instaurarsi in Israele: «
Vivere in una vera democrazia significa capire che tutti hanno gli stessi diritti di cittadini, che questa terra appartiene a tutti. Una vera democrazia è quella in cui si condivide e si comprende il dolore e la sofferenza della minoranza. Invece noi israeliani viviamo il dolore dei palestinesi come una minaccia, perché quando noi celebriamo il giorno dell’Indipendenza, loro commemorano la Nakba [catastrofe]. Abbiamo il dovere, in democrazia, di capire e rispettare il loro dolore e i loro ricordi. E cercare l’equità».
Poiché non siamo di fronte a un giallo, questa “anticipazione” non può togliere il gusto di seguire l’intervista passo per passo, anche perché vi si incontrano preziose informazioni storiche .
L’intervista prende le mosse dalla recente rimozione del ministro della Difesa, Yoav Gallant, e dalla sua sostituzione con il ministro degli Esteri Israel Katz, il che significa una radicalizzazione delle posizioni del governo.
Sull’argomento, Ayalon dichiara di essere molto arrabbiato e di essere altresì in totale disaccordo con la politica del governo in generale, e «in particolare con la condotta politica e morale di Netanyahu». «
Licenziare il ministro della Difesa nel bel mezzo della guerra, - aggiunge - mette in pericolo la sicurezza degli israeliani come popolo e il futuro dello Stato. E sono convinto che anche chi ha votato per lui ormai si rende conto che Netanyahu lo ha fatto solo per ragioni personali, per salvaguardare sé stesso e non per creare un Israele più sicuro, per questo penso che questo governo rappresenti la minaccia più pericolosa per il futuro di Israele».
Su Gallant, nominato da lui stesso a capo della Marina israeliana, Ayalon osserva che, pur non condividendo le sue idee politiche, si rende conto che Gallant ultimamente ha capito «
che è un pericolo dare potere a un gruppo di persone che crede nel concetto messianico dell’ebraismo», perché ha realizzato che la minaccia principale per lo Stato sono le fratture esistenti nella società e nelle istituzioni israeliane che stanno diventando più ampie e profonde. Ma quando Gallant «
ha cercato di convincere il gabinetto di guerra, il governo, è stato fatto fuori».
Questo atteggiamento così rigido scaturisce dalla estrema destra religiosa che è diventata importante nell’organizzazione militare di Israele e influenza il comportamento dei soldati. «Abbiamo visto troppi eventi a Gaza in cui abbiamo ucciso civili innocenti, e no, non posso giustificarlo. Non posso sopportarlo. E incolpo prima di tutto il mio governo per non aver fermato questa guerra».
Spostando l’attenzione sulla Cisgiordania e sulla vita dei Palestinesi sotto occupazione, Ami Ayalon confessa che lui, pur avendo degli amici palestinesi in Cisgiordania, la cui vita sta subendo insostenibili limitazioni, non riesce a sentire «
davvero quale sia l’umiliazione che provano a ogni posto di blocco militare, [ né] come si sentano prigionieri quando non possono spostarsi da un posto all’altro, o la paura che provano ogni volta che vogliono andare a raccogliere le olive dai loro alberi. Penso che la risposta più onesta sia: posso descriverlo, ma non ho la capacità di sentire cosa si prova».
Sull’occupazione dei territori palestinesi da parte d’Israele, Ayalon osserva, prima di tutto, che l’occupazione va contro la sua identità ebraica. Ma gli ci sono voluti vent’anni (dalla guerra dei Sei Giorni alla prima Intifada) «
per capire che non sono un liberatore di questa terra». Anche se uno pensa che la terra d’Israele è il posto in cui è nato il popolo ebraico, «
poi capisci che per mantenere i tuoi valori devi dividere questo pezzo di terra. Perché siamo degli occupanti molto crudeli, e finché lo saremo, le persone continueranno a combattere per la loro libertà. Finché non poniamo fine all’occupazione non ci sentiremo sicuri e protetti e non saremo in grado di preservare la nostra identità».
Se fosse un Palestinese, Ayalon ribadisce quanto ha detto molte volte: combatterebbe contro l’occupazione israeliana: «
Non credo nel radicalismo né lo giustifico. Ma se credessi che l’unico modo per porre fine all’occupazione, alla vita miserabile che comporta, sia combattere, combatterei. E siccome vengo attaccato ogni volta che lo dico, voglio aggiungere che qualsiasi israeliano, comandante o ex comandante, che dà una risposta diversa o mente o non ha capito il suo nemico. Ed è chiaro che non puoi cercare di sconfiggere un nemico, se non capisci perché sta combattendo».
Ecco qui il punto nevralgico della questione, che molti, troppi israeliani non capiscono, men che meno, Netanyahu e il suo governo: «
Quella che stiamo combattendo non è una guerra contro il terrore palestinese, ma contro il popolo palestinese. E il popolo palestinese continuerà a combattere. E noi a mandare figli a morire per uccidere un nemico che non conoscono e non capiscono».
Ripercorrendo le tappe della sua maturazione, ricorda quanto fu cruciale per lui l’assassinio di Yitzhak Rabin, avvenuto il 4 novembre 1995, per mano di un colono ebreo estremista di destra contrario a ogni negoziato con i palestinesi (Rabin, con Shimon Peres e Yasser Arafat era stato insignito nel 1994 del premio Nobel per la pace e aveva firmato anche un trattato di pace con la Giordania). L’omicidio di Rabin era stato sostenuto e voluto da «
una vasta comunità di persone che credeva che Rabin e la politica che aveva scelto per guidarci mettessero in pericolo il futuro di Israele».
Da direttore dello Shin Bet, Ayalon capì in primo luogo «
che i palestinesi erano esseri umani e il mio nemico non erano loro ma le organizzazioni terroristiche che non accettavano il futuro dei due Stati. La terza lezione è stata tradurre le prime due in un obiettivo. E ho capito che avremo sicurezza solo quando loro avranno speranza. Quando lo dico ai miei amici in Israele mi rispondono che sono pazzo».
Siamo alla fine dell’intervista e ci riallacciamo a quanto ho anticipato all’inizio.
C’è stato un errore di valutazione dei governi israeliani sui Palestinesi; hanno creduto che i Palestinesi non avrebbero combattuto finché avessero potuto sfamare i propri figli. Ma così non è. «
Invece sono pronti a uccidere e a morire per la libertà, per vedere la fine dell’occupazione».
E a proposito della deterrenza, Ayalon prosegue che non si possono scoraggiare le persone se credono di non avere niente da perdere. «
L’equazione della deterrenza è che posso prendere qualcosa di molto, molto importante per te. Qualcosa che non vuoi perdere. Ma se senti di non avere nulla da perdere, non posso scoraggiarti. E se mi chiedi cosa ho visto durante la seconda Intifada, e probabilmente anche cosa abbiamo visto il 7 ottobre, sono persone che credono di non avere nulla da perdere. E continuare a comportarci così, mina il valore della nostra democrazia».
Così chiudiamo il cerchio: Che cos’è che fa di una democrazia una vera democrazia, chiede alla fine la giornalista. La risposta è: "
il modo in cui viene praticata". Rendersi conto e accettare che la terra d’Israele appartiene a tutti – Israeliani e Palestinesi – e che tutti hanno gli stessi diritti di cittadini. «
Una vera democrazia è quella in cui si condivide e si comprende il dolore e la sofferenza della minoranza». E dunque, afferma implicitamente Ayalon, non è giusto che gli Israeliani celebrino il giorno per loro fausto dell’Indipendenza quando per i palestinesi quel giorno rappresentò per loro
la catastrofe (Nabka), cioè l’esodo forzato di 700.000 arabi palestinesi dai territori occupati da Israele nel corso della prima guerra arabo-israeliana del 1948.
I profughi furono sistemati in campi allestiti nei Paesi arabi che però non dettero loro la cittadinanza.
La vera democrazia, che Ayalon caldeggia per il suo Paese, dovrà affrontare verosimilmente anche questa ferita, e potrà farlo se si ascolteranno le molte voci delle associazioni di amicizia israelo-palestinese come quella di
The People's voice ,
Parents circle e
Women wage peace e altre ancora.
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