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In memoria...... o in presenza?
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La pulce nell'orecchio 
1 febbraio 2003 0:00
 
In appena tre settimane, dalla svolta dell'anno, sono morti, qui in Italia, due uomini famosi -Giorgio Gaber e Gianni Agnelli-, e, in ambedue i casi, molto alta e' stata l'ondata di emozione che si e' propagata alla notizia di questi eventi. Tanta la commozione, senz'altro soggettivamente sincera, le lacrime, le testimonianze d'affetto e di stima, i ricordi. Ma di tutto cio' qual e' l'origine e il beneficiario? La persona morta, o, pur sempre, chi si commuove e ricorda?

In meno di dieci giorni, io stessa sono messa a confronto con la morte improvvisa di due persone conosciute direttamente: il marito di un'amica, andato via in pochi minuti per un infarto, e un'amica, andata via in tre giorni per una emorragia cerebrale.
La conoscente che mi da' quest'ultima notizia me la comunica cosi': "X. ci ha lasciato". So che non e', in questo caso, una frase fatta: davvero, lei, la donna che lo dice, si sente "lasciata", perche' questa amica comune ha stabilito sempre con gli altri dei rapporti di viva originalita', interpellando se stessa e le persone intorno -adulti o bambini- con onesta' cristallina. Nella costante confusione di sensazioni, emozioni, sentimenti, che contraddistingue le nostre vite, una persona cosi' corre il rischio -anche e proprio suo malgrado- di rappresentare, per gli altri, una sorta di ancoraggio o di essere usata come una cima su cui si sale ogni tanto a respirare aria pulita....... per poi tornare di nuovo giu', in mezzo all'inquinamento.... a inquinare a nostra volta, e soprattutto dimenticandoci, nei fatti, che anche lei e' un essere umano che ha bisogno di quell'attenzione che sa cosi' bene offrire agli altri.
"X. ci ha lasciato". Non e' una frase fatta; neppure e', in questo caso, ne sono certa, un modo per evitare di pronunciare la parola "morte".
Ma proprio perche' non e' una frase fatta, in questo mio povero cervello, che si e' messo a tremare osservando la propria fragilita', risalta meglio l'evidenza che l'accento, in questa affermazione, non e' posto sul soggetto, "X.", ma sul complemento oggetto, che siamo "noi".
Non questa persona, che abbiamo certamente ammirato, e a cui, a nostro modo, abbiamo anche voluto bene sul serio, sembra essere al centro della nostra attenzione nel momento di questo evento che la vede sola, assoluta protagonista, ma pur sempre qualcosa di nostro -il nostro rimpianto, il nostro sentirci soli, .....il nostro....., il nostro......, il nostro.
Non riusciamo proprio mai a stare accanto a qualcuno per se stesso? Non ci e' proprio possibile essere presenti a un'altra persona in silenzioso rispetto, accettando che lei, solo lei, sia protagonista di cio' che sta accadendo; e noi non c'entriamo per niente, pero', siamo li', con lei? Perche'..... senza perche'.

Non c'e', nella vita, un'altra esperienza che sia cosi' assolutamente incondivisibile come la morte. Di tutte le altre possiamo illuderci di sapere che cosa significano ("Nel mio piccolo, l'ho provato anch'io", ci viene da dire, a volte), ma della morte no. Della morte nella sua essenza, cioe' vissuta in prima persona, naturalmente, non della paura della morte, o del dolore perche' una persona cara "ci ha lasciato".
E' per questo che di fronte alla morte scappiamo via piu' che possiamo? In tutti i modi, dai piu' rozzi ai piu' raffinati. Finche' poi, un giorno, ci troviamo stretti nell'angolo, con le spalle al muro.

Ma: che cosa e', davvero, la morte? Che cosa ne sappiamo di cio' che succede veramente, quando si muore, al corpo, alle sue cellule, alla coscienza, o a qualunque altra cosa componga cio' che a noi sembra di essere? Che cosa ne sappiamo se e di che cosa abbia realmente bisogno, sul piano umano, chi sta morendo e, soprattutto, chi e' appena morto? (Siamo, ad esempio, certi che esprima una realta' oggettiva la frase che invita a dedicarci al partner, ai figli, ai genitori che piangono, perche' tanto "lui/lei (il morto) non sente piu' niente"?). Che cosa sappiamo e che uso facciamo delle interessanti, addirittura sorprendenti informazioni scientifiche sul tema (per es., le cellule sanno il momento in cui moriranno?) e delle varie, e sempre rispettabili, interpretazioni del significato della morte, che la vogliono, a seconda dei casi, una porta sul nulla o su un altro mondo?

Eppure, la morte e' l'unica cosa certa della vita, e forse, proprio per questo, da qualche parte nel nostro essere, potrebbe trovarsi una qualche indicazione utile. Non varrebbe la pena di soffermarcisi un po' sopra, in prima persona, e di indagare cercando di attraversare la palude della paura, che la parola "morte", comunque, ci evoca? Ma la parola e' la cosa?
Non potrebbe essere fondamentale prendere atto che NON SAPPIAMO? Cosi', semplicemente: di questa cosa, nella sua essenza, non sappiamo niente. Ci resta enigmatica, misteriosa.
Non potrebbe, questo, essere anche un modo per scoprire il posto di ciascuno -chi e' il protagonista dell'evento e chi la comparsa- nel momento della morte di una persona, specialmente se ci e' cara, ma anche nel corso della vita? Non potrebbe, in tal caso, cambiare radicalmente anche la vita?

Ho riflessi tardivi: a volte mi sono messa a piangere quando gli altri avevano gia' smesso da un pezzo. Per questo, non mi posso dire al sicuro da niente -neppure dal protagonismo dell'abbandono.
Tuttavia, o forse proprio per questo, mi piace concludere adesso alla presenza di questa amica, con una frase che le ho sentito ripetere diverse volte e che, sulle sue labbra, aveva il sapore di una vibrante testimonianza di attenzione alla vita: SI MUORE COME SI E' VISSUTO.

(Annapaola Laldi)
 
 
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