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E' LA MODA! SI'. MA CHI E' SUA SORELLA? (con lucida inquietante risposta di Giacomo Leopardi)
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La pulce nell'orecchio di Annapaola Laldi
1 maggio 2008 0:00
 
Non sento ancora un gran caldo, in questa meta' di aprile. Sono diventata davvero tanto freddolosa? Non e' cosi'. Il fatto e' che la colonnina di mercurio e' ancora restia a salire e volentieri fa lunghe soste intorno ai 10 gradi centigradi, a meno che non sia sollecitata direttamente da un raggio di sole, peraltro abbastanza fugace. Ma nonostante questo, gia' molte sono le persone che vestono come meglio si potrebbe addire a un'avanzata primavera -e non solo turisti e non solo giovani. E cosi', ricompaiono frequenti gli ombelichi scoperti, che peraltro, in alcuni casi, erano rimasti intrepidamente, se non sempre bellamente, esposti anche ai rigori invernali. E', questa, una moda tenace, a quanto capisco, perche' sono diversi anni che sta resistendo, diffusa in parecchie nazioni e di recente passata dalle donne anche agli uomini. E col tempo si e' imposta, a quel che ho potuto notare, una variante; la parte del ventre e della schiena scoperta si e' ampliata parecchio grazie alla confezione di pantaloni e gonnelle, in cui la "vita" e' scesa praticamente all'altezza del pube, mentre da li' fa capolino, debitamente griffato, l'elastico dello slip o del boxer.
E' la moda! Si', certo. Ma e' una moda "sana"? Non nel senso della morale, ma proprio nel senso della salute fisica. Fra l'ansia un po' isterica di mia nonna che affermava la necessita' della pancera sempre e comunque perche' "i reni e i visceri devono stare al caldo" e l'esposizione totale agli sbalzi di temperatura di queste effettivamente delicate e preziose parti del corpo, puo' esservi una sana (per la mente e il corpo) via di mezzo?
E' la moda! Gia'! E cosi' si perpetua quell'antico pseudoimperativo che recita "per bell'apparire bisogna soffrire". E invece di rispondergli coralmente un sonoro "un corno!", ci si abbandona alla sua tirannia. La quale si esercita ancora in modo diffuso nelle calzature che spesso, invece che esposte nella vetrina di un negozio, starebbero meglio in quelle di un museo delle torture medievali. Dalle forme piu' strane e sempre strette per tutti, uomini e donne, ma con un particolare riguardo sadico al femminile, con quei tacchi vertiginosi che impongono al malcapitato piede una curvatura abnorme o zeppe altrettanto vertiginose che sembrano assicurare un bel po' di lavoro agli ortopedici… e anche a molti altri medici. Perche' non e' piu' uno strano sapere di altrettanto strani omeopati o naturopati, ma e' ormai un sapere universalmente accettato che certi comportamenti legati alle mode dell'abbigliamento sono nocivi alla salute generale dell'organismo. Ragion per cui, un piede torturato, solo per fare un esempio, non portera' soltanto col tempo a disturbi di tipo ortopedico estesi per altro alle ginocchia e alle anche, ma pure ad altri tipi di disturbi, come quelli legati alla circolazione sanguigna e ad altri ancora fino a quelli -perche' no?- di tipo psichico, dato che, nonostante la parcellizzazione delle specializzazioni mediche, noi siamo e restiamo un tutto unico di corpo e anima/psiche.
Lo sapevano, del resto, gia' gli antichi cinesi, gli indiani (quelli dell'India e quelli delle Americhe) lo sapevano, piu' vicini a noi, i greci e i romani. Lo sapeva anche il nostro Giacomo Leopardi che ormai quasi un paio di secoli fa inseri' nelle sue Operette morali un dialogo fra la morte e la moda, individuando tra le due una vera e propria strettissima parentela e collaborazione. La moda, come la vita umana, nasce e muore; ambedue sono dunque caduche e proprio di Caducita', dice Leopardi, sono figlie e Moda e Morte. Non solo, ma Moda e' proprio una stretta collaboratrice della sorella Morte, offrendole su un piatto d'argento un visibilio di persone da lei torturate nei modi piu' fantasiosi, fra cui si annoverano anche le usanze proprie di ciascun popolo della terra, come quella, ad esempio, di "sformare le teste dei bambini con fasciature e altri ingegni, mettendo per costume che tutti gli uomini del paese abbiano a portare il capo di una figura, come ho fatto in America e in Asia", osservata gia' da Ippocrate (V-IV sec. a.e.v.) presso i Macrocefali (ovvero Testelunghe) del Ponto (una regione sul mar Nero, che oggi si trova in Turchia).
Rileggendo questo dialogo leopardiano dopo piu' di quarant'anni, mi ha colpito un particolare, e cioe' che alcune usanze citate da Moda, che allora avevano bisogno di una nota che spiegava che erano "usanze di popoli primitivi", le possiamo invece osservare oggi sotto i nostri occhi, a casa nostra, seguite da persone perfettamente "nostrane". E' questo, per esempio, il caso di un paio di usanze, che Moda ha imposto da tempo immemorabile e che consistono nello "sforacchiare quando orecchi, quando labbra e nasi, e stracciarli colle bazzecole che io v'appicco per li fori; abbruciacchiare le carni degli uomini con istampe roventi che io fo che essi v'improntino per bellezza […]". Cos'e' tutto cio' se non quello che noi chiamiamo piercing e tatuaggio (o tattoo, tanto per continuare ad anglicizzare la nostra lingua)?
E qui si puo' aprire un elenco di seri interrogativi, di cui do solo un accenno: Se quelle pratiche erano davvero "usanze di popoli primitivi" com'e' che sono arrivate nella nostra "civilta'"? Si sono davvero insinuate nella modernita' come un corpo estraneo, una merce di contrabbando? Oppure il "primitivo" ce lo portiamo dentro di noi, sta in quei due cervelli (il rettiliano e il mammifero) sotto la neocorteccia, la quale e' da noi usata quasi esclusivamente per esaltare proprio quegli istinti animali (fra cui il gregarismo che sta alla base della moda), da cui, invece, proprio essa ci consentirebbe di emanciparci? E cosi' via.
Nel dialogo leopardiano, tuttavia, non si tratta solo della tirannide di Moda sulle fogge degli abiti che "fanno tremare di freddo o affogare dal caldo secondo che io voglio" e delle calzature che "storpiano"la gente, oppure, come appena notato, del piercing e dei tatuaggi. Vi si parla anche di un suo potere molto piu' ampio sullo stesso modo di vivere delle persone, mandando "in disuso e in dimenticanza le fatiche e gli esercizi che giovano al benessere corporale" e introducendone di "innumerabili che abbattono il corpo in mille modi e scorciano la vita". E non possono rientrare qui -solo per fare alcuni esempi attualizzanti- la "febbre del sabato sera", la pratica ossessiva dello sport, che spinge al doping anche i nonnetti, gli esodi di massa dei forzati della vacanza a ogni costo?
A me pare che in questo dialogo Leopardi abbia messo in bocca a Moda un elenco esaustivo e universale dei modi in cui collabora strettamente con Morte, e, cosi' facendo, offra a chi legge un potente e salutare spunto di riflessione anche sulla propria vita.
E' dunque con un sentimento di riconoscenza al grande poeta e filosofo di Recanati che offro questo dialogo tra Moda e Morte, che io trovo sostanzialmente molto comprensibile, anche se vi sono delle allusioni che a noi non dicono piu' niente (come quelle al Petrarca e agli inglesi) e anche se la lingua e', come osservava Benedetto Croce, "un po' arcaica anche per il suo tempo", al qual proposito pero' faccio osservare che quelli che possono sembrare errori (come, per esempio, "vadi", "saria", "gittasti", "innumerabili" al posto degli attuali "vada", "sarebbe", "gettasti", "innumerevoli"), non lo sono, perche' a una data epoca si parlava e si scriveva proprio cosi'.
 
GIACOMO LEOPARDI
 
DIALOGO DELLA MODA E DELLA MORTE
 
Moda. Madama Morte, madama Morte.
Morte. Aspetta che sia l'ora, e verro' senza che tu mi chiami.
Moda. Madama Morte.
Morte. Vattene col diavolo. Verro' quando tu non vorrai.
Moda. Come se io non fossi immortale.
Morte. Immortale? Passato e' gia' piu' che 'lmillesim'anno che sono finiti i tempi
degl'immortali.
Moda. Anche Madama petrarcheggia come fosse un lirico italiano del cinque o
dell'ottocento?
Morte. Ho care le rime del Petrarca, perche' vi trovo il mio Trionfo, e perche' parlano di
me quasi da per tutto. Ma in somma levamiti d'attorno.
Moda. Via, per l'amore che tu porti ai sette vizi capitali, fermati tanto o quanto, e
guardami.
Morte. Ti guardo.
Moda. Non mi conosci?
Morte. Dovresti sapere che ho mala vista, e che non posso usare occhiali, perche'
gl'Inglesi non ne fanno che mi valgano, e quando ne facessero, io non avrei dove me gl'incavalcassi.
Moda. Io sono la Moda, tua sorella.
Morte. Mia sorella?
Moda. Si': non ti ricordi che tutte e due siamo nate dalla Caducita'?
Morte. Che m'ho a ricordare io che sono nemica capitale della memoria.
Moda. Ma io me ne ricordo bene; e so che l'una e l'altra tiriamo parimente a disfare e a
rimutare di continuo le cose di quaggiu', benche' tu vadi a questo effetto per una strada e io per un'altra.
Morte. In caso che tu non parli col tuo pensiero o con persona che tu abbi dentro alla
strozza, alza piu' la voce e scolpisci meglio le parole; che se mi vai borbottando tra' denti con quella vocina da ragnatelo, io t'intendero' domani, perche' l'udito, se non sai, non mi serve meglio che la vista.
Moda. Benche' sia contrario alla costumatezza, e in Francia non si usi di parlare per
essere uditi, pure perche' siamo sorelle, e tra noi possiamo fare senza troppi rispetti, parlero' come tu vuoi. Dico che la nostra natura e usanza comune e' di rinnovare continuamente il mondo, ma tu fino da principio ti gittasti alle persone e al sangue; io mi contento per lo piu' delle barbe, dei capelli, degli abiti, delle masserizie, dei palazzi e di cose tali. Ben e' vero che io non sono pero' mancata e non manco di fare parecchi giuochi da paragonare ai tuoi, come verbigrazia sforacchiare quando orecchi, quando labbra e nasi, e stracciarli colle bazzecole che io v'appicco per li fori; abbruciacchiare le carni degli uomini con istampe roventi che io fo che essi v'improntino per bellezza; sformare le teste dei bambini con fasciature e altri ingegni, mettendo per costume che tutti gli uomini del
paese abbiano a portare il capo di una figura, come ho fatto in America e in Asia;
storpiare la gente colle calzature snelle; chiuderle il fiato e fare che gli occhi le scoppino dalla strettura dei bustini; e cento altre cose di questo andare. Anzi generalmente parlando, io persuado e costringo tutti gli uomini gentili a sopportare ogni giorno mille fatiche e mille disagi, e spesso dolori e strazi, e qualcuno a morire gloriosamente, per l'amore che mi portano. Io non vo' dire nulla dei mali di capo, delle infreddature, delle flussioni di ogni sorta, delle febbri quotidiane, terzane, quartane, che gli uomini si guadagnano per ubbidirmi, consentendo di tremare dal freddo o affogare dal caldo secondo che io voglio, difendersi le spalle coi panni lani e il petto con quei di tela, e fare di ogni cosa a mio modo ancorche' sia con loro danno.
Morte. In conclusione io ti credo che mi sii sorella e, se tu vuoi, l'ho per piu' certo della
 morte, senza che tu me ne cavi la fede del parrocchiano.' Ma stando cosi' ferma, io svengo; e pero', se ti da' l'animo di corrermi allato, fa di non vi crepare, perch'io fuggo assai, e correndo mi potrai dire il tuo bisogno; se no, a contemplazione della parentela, ti prometto, quando io muoia, di lasciarti tutta la mia roba, e rimanti col buon anno.
Moda. Se noi avessimo a correre insieme il palio, non so chi delle due si vincesse la
 prova, perche' se tu corri, io vo meglio che di galoppo; e a stare in un luogo, se tu          ne svieni, io me ne struggo. Sicche' ripigliamo a correre, e correndo, come tu dici,
parleremo dei casi nostri.
Morte. Sia con buon'ora. Dunque poiche' tu sei nata dal corpo di mia madre, saria
conveniente che tu mi giovassi in qualche modo a fare le mie faccende.
Moda. Io l'ho fatto gia' per l'addietro piu' che non pensi. Primieramente io che annullo o stravolgo per lo continuo tutte le altre usanze, non ho mai lasciato smettere in nessun luogo la pratica di morire, e per questo vedi che ella dura universalmente insino a oggi dal principio del mondo.
Morte. Gran miracolo, che tu non abbi fatto quello che non hai potuto !
Moda. Come non ho potuto? Tu mostri di non conoscere la potenza della moda.
Morte. Ben bene: di cotesto saremo a tempo a discorrere quando sara' venuta l'usanza
che non si muoia. Ma in questo mezzo io vorrei che tu da buona sorella, m'aiutassi a ottenere il contrario piu' facilmente e piu' presto che non ho fatto finora.
Moda. Gia' ti ho raccontate alcune delle opere mie che ti fanno molto profitto. Ma elle
sono baie per comparazione a queste che io ti vo' dire. A poco per volta, ma il piu' in questi ultimi tempi, io per favorirti ho mandato in disuso e in dimenticanza le fatiche e gli esercizi che giovano al ben essere corporale, e introdottone o recato in pregio innumerabili che abbattono il corpo in mille modi e scorciano la vita. Oltre di questo ho messo nel mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa, cosi' per rispetto del corpo come dell'animo, e piu' morta che viva; tanto che questo secolo si puo' dire con verita' che sia proprio il secolo della morte. E quando che anticamente tu non avevi altri poderi che fosse e caverne, dove tu seminavi ossami e polverumi al buio, che sono semenze che non fruttano; adesso hai terreni al sole; e genti che si muovono e che vanno attorno co' loro
piedi, sono roba, si puo' dire, di tua ragione libera, ancorche' tu non le abbi mietute, anzi subito che elle nascono. Di piu', dove per l'addietro solevi essere odiata e vituperata, oggi per opera mia le cose sono ridotte in termine che chiunque ha intelletto ti pregia e loda, anteponendoti alla vita, e ti vuol tanto bene che sempre ti chiama e ti volge gli occhi come alla sua maggiore speranza. Finalmente perch'io vedeva che molti si erano vantati di volersi fare immortali, cioe' non morire interi, perche' una buona parte di se' non ti sarebbe capitata sotto le mani, io quantunque sapessi che queste erano ciance, e che quando costoro o altri vivessero nella memoria degli uomini, vivevano, come dire, da burla, e non
godevano della loro fama piu' che si patissero dell'umidita' della sepoltura; a ogni
modo intendendo che questo negozio degl'immortali ti scottava, perche' parea che ti scemasse l'onore e la riputazione, ho levata via quest'usanza di cercare
l'immortalita', ed anche di concederla in caso che pure alcuno la meritasse. Di modo che al presente, chiunque si muoia, sta sicura che non ne resta un briciolo che non sia morto, e che gli conviene andare subito sotterra tutto quanto, come un pesciolino che sia trangugiato in un boccone con tutta la testa e le lische. Queste cose, che non sono poche ne' piccole, io mi trovo aver fatte finora per amor tuo, volendo accrescere il tuo stato nella terra, com'e' seguito. E per quest'effetto sono disposta a far ogni giorno altrettanto e piu'; colla quale intenzione ti sono andata cercando; e mi pare a proposito che noi per l'avanti non ci partiamo dal fianco l'una dell'altra, perche' stando sempre in compagnia, potremo consultare insieme secondo i casi, e prendere migliori partiti che altrimenti, come anche mandarli meglio ad esecuzione.
Morte. Tu dici il vero, e cosi' voglio che facciamo.
 
 
 
NOTA
Il "Dialogo della Moda e della Morte" e' il terzo dei 24 scritti contenuti nelle Operette Morali, che Giacomo Leopardi inizio' a comporre intorno al 1820. Le prime 20 composizioni, molte delle quali in forma di dialogo, furono pubblicate in volume a Milano nel 1827, dopo che le prime tre erano state stampate l'anno prima sull'"Antologia", l'importante rivista di Gian Pietro Vieusseux, che si pubblico' a Firenze dal 1821 al 1833, quando fu soppressa dalla censura. Nel 1834 l'opera ebbe una seconda edizione a Firenze con l'aggiunta di altri due dialoghi. Una terza edizione completa sarebbe dovuta uscire a Napoli nel 1835, ma non ebbe il necessario visto della censura; alcune copie pero' circolarono comunque. Dopo la morte di Leopardi, fu l'amico napoletano Antonio Ranieri a ristampare nel 1845, all'interno delle Opere leopardiane, questi scritti seguendo le intenzioni dell'autore.
Su Internet il testo integrale delle Operette morali si trova sui seguenti siti:
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Una scelta, fra cui il dialogo oggetto di queste noterelle, e altre prose leopardiane:
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Un commento e' visibile su: clicca qui
 
Su Giacomo Leopardi, di cui si da' comunque di seguito una breve nota biografica, si trovano informazioni ai seguenti link:
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Giacomo Leopardi nacque a Recanati (nelle Marche, allora nello Stato pontificio) il 29 giugno 1798 e mori' a Napoli (allora capitale del Regno delle Due Sicilie) il 14 giugno 1837. Suo padre era il nobile Monaldo, uomo colto e conservatore, ma poco capace di amministrare i propri beni, sua madre, Adelaide dei marchesi Antici, che dovette assumersi la cura dei beni familiari e che il figlio descrisse come una persona molto arida. Ebbe un fratello, Carlo, e una sorella, Paolina, appena piu' giovani di lui, particolarmente amati non solo durante l'infanzia. Fin da bambino, tuttavia, passo' gran parte del suo tempo nella ricca biblioteca paterna, dedicandosi, come lui stesso ebbe a dire a uno "studio matto e disperato". Fra i nove e i quattordici anni ebbe come maestro un prete che pero' nel 1812, onestamente, dichiaro' di non avere nient'altro da insegnare al giovanissimo allievo, il quale aveva gia' dato prova a undici anni di sensibilita' artistica e letteraria, scrivendo il sonetto La morte di Ettore. Nonostante vivesse ancora nel "natio borgo selvaggio" di Recanati, i suoi primi scritti, gia' di grande valore, furono conosciuti e apprezzati da molti studiosi, fa cui in particolare da Pietro Giordani che era gia' un uomo maturo e famoso e che defini' il Leopardi appena ventunenne un "colosso". Dopo un tentativo fallito di fuggire da casa, nel 1819 (e' di quel periodo la redazione della poesia L'infinito e di altri versi famosi, che uscirono a stampa a Bologna nel 1824), riusci' ad allontanarsi da Recanati nel 1822, per andare a Roma, da dove tornera' poco dopo molto deluso. E' allora che lavora alacremente alle Operette morali e ad altre opere di critica letteraria che saranno pubblicate a Milano, dove Leopardi si reco' nel 1825, passando poi a Bologna e Firenze, quindi a Pisa, dove visse tra il 1827 e il 1828, ritrovando la vena poetica (e' di questo periodo la celebre poesia A Silvia). Tornato a Recanati alla fine del 1828, compose i "grandi idilli", ma nel 1830 riparti' definitivamente da casa e si reco' a Firenze, dove ebbe la triste esperienza dell'illusorio rapporto con Fanny Targioni Tozzetti, che gli ispiro' alcune poesie amare e famose. Si era intanto legato d'amicizia con il piu' giovane Antonio Ranieri, con cui si reco' a Napoli nel 1833, dove rimase fino alla morte, assistito, oltre che dall'amico, dalla sorella di quest'ultimo, Paolina. Quella di Napoli, nonostante la malattia fisica, e' considerata dagli studiosi la sua stagione intellettualmente e poeticamente piu' felice. Oltre a scritti di vivace e lucida polemica, compose alcune poesie, tra cui, nel 1836, La ginestra. Sul periodo di amicizia con Leopardi, Antonio Ranieri pubblico' nel 1880 Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, sembra, per difendersi da alcune accuse che lo volevano irriguardoso nei confronti dell'amico scomparso e avevano messo in dubbio il suo disinteresse. L'opera appena citata e' comunque una fonte preziosa di informazioni sulla vita del poeta (sull'argomento vedere:
clicca qui)
Fra le opere di Leopardi, oltre alle Operette morali, si possono citare:
I canti, la cui prima edizione curata dall'autore risale al 1831 (Firenze), e la cui prima edizione completa e' quella curata da Antonio Ranieri nel 1845 presso l'editore Le Monnier sempre a Firenze;
lo Zibaldone (dei pensieri), una vastissima raccolta di riflessioni composta tra il 1817 e il 1832 (a volte viene pubblicato parzialmente sotto il titolo di "Pensieri");
il Discorso di un italiano sopra la poesia romantica, scritto nel 1818, ma restato inedito fino al 1906;
il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani (1824).

(a cura di Annapaola Laldi)
 
 
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