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IN UN'OASI DI PACE PER VIVERE IL CONFLITTO
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La pulce nell'orecchio di Annapaola Laldi
1 novembre 2002 0:00
 
"Noi viviamo il conflitto. Non cerchiamo di risolvere il conflitto, ma di viverlo, e di sviluppare strumenti per fronteggiarlo".
Sono queste le parole con cui si sono congedate dal pubblico di Bagno a Ripoli (Firenze), il 19 ottobre scorso, l'ebrea Dorit Shippin e la palestinese Nehaia Daoud, che per tre giorni sono state a Firenze, su invito dell'associazione "Un tempio per la pace", a informare sulla situazione attuale del villaggio in terra d'Israele, in cui vivono insieme con altre 38 famiglie, meta' palestinesi e meta' ebree. Un villaggio veramente singolare fino dal nome, che significa "OASI DI PACE", e che viene sempre proposto insieme in lingua ebraica ed araba: NEVE' SHALOM/WAHAT AS SALAM (www.nswas.com).
Questa piccola iniziativa privata, unica nel suo genere in Israele, ma forse anche nel mondo intero, e' infatti ispirata al motto: "DUE NAZIONI, DUE LINGUE, TRE RELIGIONI", dove le due nazioni, sono appunto gli ebrei e i palestinesi, le due lingue sono l'arabo e l'ebraico, che vengono insegnate ai bambini fino dal nido, e le tre religioni sono l'ebraica, la musulmana e la cristiana (fra i palestinesi ci sono infatti sia cristiani sia musulmani) -al quale ultimo proposito bisogna, pero', aggiungere che nel villaggio esiste una "Casa del silenzio", priva di segni o simboli particolari, come luogo di riflessione o meditazione per tutti -credenti o no in una religione rivelata.

Il villaggio fu fondato nel 1972 da Bruno Hussar (1911-1996), che nella sua autobiografia dice di se': "Sono un prete cattolico, sono ebreo, cittadino israeliano, sono nato in Egitto dove ho vissuto 18 anni. PORTO quindi IN ME QUATTRO IDENTITA': sono veramente CRISTIANO e prete, veramente EBREO, veramente ISRAELIANO, e mi sento VICINO AGLI ARABI, che conosco ed amo". Sono 30 anni, dunque, che NS/WaS continua a esprimere questa proposta di convivenza fra ebrei e palestinesi, che l'opinione pubblica israeliana -sono parole di Dorit Shippin- ha definito, di volta in volta, "folle, interessante, ingenua, e ora di nuovo folle". Una follia, comunque, realista, a rileggere le parole che ho trascritto all'inizio, e determinata -pare- a non far degenerare il conflitto in violenza, lasciandosi assorbire nella normalita' quotidiana delle uccisioni incrociate, di fronte a cui, a onor del vero, s'impone l'interrogativo: Ma la follia, dove sta veramente?
Dal 1977, anno in cui sull'allora spoglio terreno affittato a Hussar dai monaci trappisti di Latrun, a meta' strada tra Gerusalemme e Tel Aviv, ando' a vivere col domenicano il primo nucleo familiare, il numero delle famiglie e' stato in continua crescita: 30 nel 1999, 40 oggi, mentre le domande di ammissione si infittiscono, con la motivazione quasi unanime che questo e' l'unico luogo, in Israele, in cui una famiglia puo' desiderare di crescere i propri figli. La stessa motivazione che, secondo la loro diretta testimonianza, spinse Dorit e Nehaia a NS/WaS quando attendevano il primo bambino. Una scelta non indolore -e' bene sottolinearlo, come hanno fatto loro-, anche a causa delle incomprensioni delle rispettive famiglie d'origine.
Pazze, interessanti, ingenue, di nuovo pazze -forse traditrici, anche- non solo per una parte dell'opinione pubblica, ma forse pure per i loro consanguinei. Non sembra, dunque, una cosa semplice scegliere di stare a NS/WaS. E restarci. Specialmente da due anni a questa parte: perche' adesso non si tratta piu' solo di far fronte alla rabbia e all'angoscia portate dall'esterno, ad esempio, dagli alunni della scuola elementare di NS/WaS, che vengono dai villaggi vicini, ma anche di confrontarsi con l'irruzione di sentimenti di incomprensione e diffidenza proprio all'interno della vita di NS/WaS. Il primo impatto c'e' stato con la morte, sotto le armi, di un diciannovenne ebreo. Anche se avvenuta per un incidente, alla famiglia del ragazzo, che chiede al villaggio di ricordarne l'anniversario, i palestinesi si irrigidiscono e obiettano: "Come facciamo a onorare un soldato che andava in Libano forse a uccidere i nostri familiari in esilio?". La personale sincera pieta' umana per il dolore di due genitori che hanno perso il giovane figlio si arena nel momento in cui scatta l'identificazione col gruppo.
Eppure, dicono Dorit e Nehaia, e' indispensabile che l'identita' di gruppo sia forte, perche' "solo se la mia identita' e' forte non ho paura a confrontarmi con l'altro". E in questo senso si muove, fino dalla sua fondazione nel 1979, la "Scuola per la pace", che lo stesso Hussar vedeva come intimo scopo fondante di NS/WaS, "perche' anche la pace e' un'arte; non si improvvisa, ma va imparata".
Due, dunque, sembrano essere i punti fondamentali di questa pedagogia della pace: conferma della propria identita' e confronto con l'altro, che a sua volta e' certo della propria identita', dove "confronto" significa raccontarsi, dire le proprie speranze e attese di una vita vissuta positivamente e, insieme, le proprie paure e angosce di fronte alla minaccia che l'altro rappresenta per me. Ma l'altro che cosa vuole per se' se non quello che voglio io per me? E io, a mia volta, allora, non rappresento una minaccia per l'altro?
Di fronte a questa ineludibile realta' non ci sono scorciatoie che tengano. Il conflitto -cosi' sembra- non si elimina ne' ignorandolo ne' cercando di distruggere il presunto nemico (per inciso: i kamikaze non potrebbero dirci paradossalmente proprio che siamo cosi' intimamente intessuti gli uni negli altri che, per uccidere il "nemico" dobbiamo ucciderci, materialmente, noi stessi?). Il conflitto esiste, e va gestito nel modo piu' creativo possibile. Ed e' forse per questo che, "a dispetto dell'attuale crisi nelle relazioni fra ebrei ed arabi", come si legge in un comunicato stampa della "Scuola per la pace" del 17 ottobre scorso, "la nostra attivita' continua sempre piu' ad estendersi. Mai, prima d'ora, abbiamo portato avanti cosi' tanti differenti progetti". Fra cui spicca, per l'anno 2002-2003, una collaborazione con l'universita' ebraica di Gerusalemme e quelle di Haifa e Tel Aviv per la formazione di "facilitatori" che devono operare nei gruppi conflittuali.

A mano a mano che in questi giorni mi soffermavo sull'esperienza di NS/WaS per raccontarla qui, perche' mi sembra degna di essere conosciuta, mi e' venuto sempre piu' da chiedermi se essa non abbia da dire anche a noi, che viviamo una realta' storica ben diversa, molto di piu' di quanto possiamo pensare di primo acchito. E se quella stessa realta' conflittuale, che in Israele si presenta con una virulenza inaudita nella modalita' di un confronto fra popoli che hanno ciascuno un certo diritto ad abitare il medesimo territorio, ci fosse anche qui da noi, magari in un formato ridotto e in modalita' piu' sfuggenti perche' considerate ovvie? E non mi riferisco tanto alla difficolta' di convivenza fra italiani e immigrati, quanto ai conflitti piu' interni. Quello fra i sessi o fra le generazioni, ad esempio, non sta assumendo connotazioni allarmanti? Quante volte deve ripetersi un certo tipo di evento (un delitto, ad esempio) perche' il conflitto che esso rivela si imponga come problema che riguarda tutti e non come una disgrazia toccata al singolo individuo?
E' una domanda che mi inquieta, ma che trovo anche di interesse vitale. Cosa vuol dire, per esempio, tutto questo sgomento fra la gente, che non credeva "che qui da noi fosse possibile una cosa cosi'"? Non puo' significare che sta emergendo in mezzo a noi -dentro di noi- un grado di conflittualita' che non credevamo esistesse? Che abbiamo a che fare, forse quotidianamente, anche noi con paura, rabbia, frustrazione in una misura elevata, forse addirittura eccessiva per le nostre forze? Quale consapevolezza reale ne abbiamo? Quali strategie adottiamo? Ci contentiamo di un capro espiatorio ("e' tutta colpa di ...... -metteteci cosa vi pare-, ... e se non ci fossero lui/lei/loro, starei bene")? E', questa, una carta vincente per il nostro reale benessere? Perche' non vi e' dubbio che cio' che vogliamo tutti quanti e' stare bene ed essere felici.
Come stanno, dunque, davvero le cose?
Queste domande non sembrino peregrine.
Leggo, infatti, che un osservatorio attento all'individuo e al sociale come il Gruppo Abele di Torino (www.gruppo abele.org), fino dal 1995 ha iniziato, nel capoluogo piemontese, un "progetto di gestione e mediazione dei conflitti", aprendo, nel 1998, il Centro per la gestione dei conflitti "Spazi di intesa, e nel 2001 la "Casa dei conflitti Mirafiori".
"I centri", si legge nella scheda, "rappresentano luoghi di ascolto, accoglienza e accompagnamento per chi vive una situazione di tensione nell'ambito familiare, lavorativo o di vicinato........
Il progetto si propone come una risposta alla dimensione soggettiva della paura e della sicurezza urbana e mira a diffondere nel tessuto cittadino una nuova cultura volta a restituire alle persone la piena responsabilita' della gestione del conflitto che sta vivendo, e, di conseguenza, delle sue possibili soluzioni".

Soltanto a Torino, dunque, due centri preposti alla gestione dei conflitti -e nel resto d'Italia, tutto va a gonfie vele? A leggere i giornali, anche in cronaca locale, verrebbe da dire di no.
E, allora, la proposta concreta di vita di NS/WaS non potrebbe rappresentare per noi uno spunto interessante di riflessione su diversi argomenti? A cominciare, per esempio, da un approfondimento del significato della parola "conflitto", che non e' di per se', come in genere si pensa e si usa con estrema leggerezza, sinonimo di "scontro" e di "guerra".
Neve' Shalom/Wahat as Salam ha molti amici in tutto il mondo (inclusa l'Italia). Lo si capisce subito visitando il suo sito, in cui le informazioni principali, oltre che in inglese, arabo ed ebraico, sono date in altre otto lingue, esperanto compreso. Questi amici sono stati, fin dall'inizio, e sono tuttora una grande risorsa per il villaggio, sia sul piano morale sia su quello economico e del volontariato, e la gratitudine della sua gente e' sempre stata molto forte. Eppure oggi, proprio in questo momento che e' forse il piu' tragico della storia mediorientale degli ultimi trent'anni, a me pare che si stiano quasi invertendo le parti -o almeno bilanciando. La resistenza della gente di NS/WaS ha bisogno degli amici che stanno in Paesi dove "c'e' la pace" -questo e' un dato di fatto. Ma questi amici, a mano a mano che si accorgono che la loro pace puo' presentare, qua e la', qualche incrinatura, si rendono conto di quanto sia importante per loro l'esistenza, la resistenza, l'amicizia di Neve' Shalom/Wahat as Salam?



APPENDICE

L'autobiografia di Bruno Hussar s'intitola "Quando la nube si alzava" ed e' stata pubblicata in Italia dall'editore Marietti di Genova nel 1996.

In Italia l'Associazione degli "Amici di Neve' Shalom/Wahat as Salam" ha questo indirizzo: c/o Franca Fabris -Via Buschi,19-20131 Milano.

Il Gruppo Abele ha sede in via Giolitti, 21 -10123 Torino. I suoi LINK: clicca qui e clicca qui.
 
 
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