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TRE STORIE. O UNA SOLA?
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La pulce nell'orecchio di Annapaola Laldi
1 febbraio 2002 0:00
 
6 gennaio 2002 Si presenta come un pensionato milanese a basso reddito con seri problemi di salute. In passato e' comunque riuscito a farsi un gruzzolo, una parte del quale ha investito dal 1997 al 2000, in titoli di stato argentini, "con l'aspettativa che la loro redditivita' potesse compensare" le sue attuali difficolta' economiche. E tale scelta, dice, l'ha fatta dopo essersi documentato sui rating abbastanza rassicuranti concessi all'Argentina da alcune agenzie internazionali. Adesso, teme la perdita di interessi e capitale, a cui si potrebbe arrivare per la bancarotta del Paese sudamericano, e invoca "una giusta tutela per i molti investitori italiani" da parte di ministero degli Esteri, Banca d'Italia, Abi e Consob. E', questo, il riassunto di una lettera pubblicata su "Il Sole 24 ore" del 6 gennaio 2002, a cui il quotidiano risponde con alcune osservazioni, un paio delle quali possono immetterci in una riflessione che va al di la' dell'ambito finanziario, a cui immediatamente si riferiscono. In primo luogo, si fa notare che in questo caso si e' ignorato il vero significato di una formula tecnica quale "rischio paese", che era pur messo in evidenza dalle agenzie di rating. "Quale pericolo", ci si chiede, "se non l'insolvenza, dovrebbe rispondere a questa definizione?". E poi: valutare un debitore, prosegue il giornale, vuol dire chiedersi se ha la capacita' di restituire cio' che ha preso in prestito, e, a controprova, gli interessi, che offre per invogliare le persone a concedergli il denaro di cui ha bisogno, sono inversamente proporzionali alla fiducia che ispira. Piu' alti sono, piu' grande il rischio di trovarsi senza piu' niente in mano, neppure il capitale. E per interessi alti, fa notare ancora la risposta, si intende anche un semplice 8-9%, la' dove Paesi sicuri riconoscono il 3,5%. Proseguendo quindi sulla via indicata da questa risposta, si puo' affermare che affidarsi a chi promette interessi elevati (Stato, societa' o privato che sia), significa letteralmente "giocare" i propri soldi. Cioe' poterli perdere tutti quanti, come e' possibile in un qualunque gioco, dalla schedina dell'Enalotto al tavolo verde di un Casino'. E che, nel gioco, sia piu' comune perdere che vincere fa parte dell'esperienza vissuta della stragrande maggioranza delle persone (che pero' non ci fanno caso perche' cio' che hanno perso e' solo qualche migliaio di lire alla settimana).

22 dicembre 2001 "Vanna Marchi mi ha truffato. Per 10 milioni vi racconto tutto". Cosi' il quotidiano "Libero", poco piu' di un mese fa, subito dopo la denuncia di "Striscia la notizia", titolava un articolo in cui si riproduceva la conversazione telefonica con una signora che -cosi' affermava-, in sei anni e' mezzo, aveva dato a Vanna Marchi 200 milioni. Adesso aveva scoperto di essere stata plagiata. "Perche' non ha denunciato tutto subito alla Guardia di Finanza?", chiede il giornalista. "Perche' prima volevo fare questa cosa per i fatti miei." I fatti suoi consistono nel tentare una piccola compensazione della perdita subita con teletruffatrice, vendendo la sua storia. Troppo poco il milione offertole dal quotidiano. "Documenti come questi hanno un valore", e poi: "Io faccio una richiesta perche' sono, come dire, sistemata cosi', altrimenti avrei dato la roba a tutti i Tg, senza distinzione". E avanza la richiesta di 10 milioni, che, a ben pensarci, sono appena il 5% dei 200 milioni che dice di aver perso.... Il 25 gennaio 2002 titoli a tutta pagina: Vanna Marchi arrestata. Su "La Repubblica" leggo: 32 milioni di euro (63 miliardi di lire) incassati dal 1996 al 2001. Clienti 305.964 (235.882 di prodotti "esoterici"). L'inizio dell'intrigo: dalle 100 alle 300mila lire per avere numeri buoni da giocare al lotto. Poi, non uscendo quei numeri, si metteva in moto la piu' pesante e costosa macchina del malocchio, chiamato in causa come vero inibitore della vincita. A cui si aggiungeva un crescendo di ricatti del tipo: ti si ammalera' la figliola, ti morira' il marito, se non ci paghi.

Una decina di anni fa. Albania. Nel 1991, due anni dopo il crollo del muro di Berlino, si tengono in Albania le prime elezioni democratiche, ma il Paese viene da un isolamento decennale ermetico e avrebbe bisogno di costruirsi passo per passo tutte le strutture che nelle democrazie occidentali diamo -forse a torto- per scontate (per esempio, una reale separazione dei poteri, i vari codici per l'amministrazione della giustizia, un sistema bancario sano, una stampa indipendente). Di fatto, cio' che sembra avere subito molta fortuna sono i cosiddetti "Fondi comuni Ponzi". Qualcuno (il cognome ha un che d'italiano) rastrella i risparmi degli albanesi, promettendo investimenti che fruttano il 20, il 30, anche il 50%. Molti si fanno allettare da questa offerta. Forse, si dicono, e' questo il libero mercato. Che bello! E d'altra parte, la televisione italiana, specie nella pubblicita', mostra gente che vive una vita da favola. I primi investitori riscuotono davvero dei begli interessi, il che spinge altri a portare i loro risparmi al banco di raccolta. Ed e' probabile che sia a questo punto che abbiano tirato fuori i loro soldi anche i risparmiatori piu' piccoli e piu' prudenti, i quali ci rimetteranno proprio tutto. Perche' quello che nessuno dei risparmiatori sa e' che questi fondi non investono in attivita' produttive, e che l'appetitoso tasso d'interesse e' pagato grazie a una parte dei soldi freschi che i nuovi risparmiatori affidano agli operatori finanziari (un'altra parte se la prendono, ovviamente, questi ultimi). Insomma, e' un'autentica truffa. Il gioco dura fino al 1997, quando tutto crollo' come un castello di carte, "portando a un collasso totale della legge e dell'ordine", come osserva il giornalista americano Thomas L. Friedman, nel suo documentato libro sulla globalizzazione ("Le radici del futuro", Mondadori 2000). Il quale aggiunge: "Gli albanesi, furiosi, hanno saccheggiato il loro stesso Paese, nella vana speranza di recuperare almeno in parte cio' che era stato loro sottratto", senza peraltro riuscire o volere identificare i veri responsabili in quella "borghesia criminale", che, come sostiene un testimone albanese, con la connivenza del Governo, "non paga le tasse, non e' responsabilizzata nei confronti della vita sociale della gente o delle infrastrutture" e "si limita a prendere", avendo come slogan implicito: "Se non puoi competere nel campo del microchip, puoi competere in quello della mafia" (p. 167-169).

Propongo queste tre storie, perche', nonostante alcuni aspetti molto diversi, hanno qualcosa in comune . Da un lato c'e' il desiderio di stare meglio, e anche una sorta di rivalsa sulle attuali condizioni di vita, ritenute non del tutto soddisfacenti, dall'altro una cieca fiducia in qualcuno -sostanzialmente sconosciuto- che promette di poter realizzare senza fatica guadagni favolosi. In nessuna delle tre storie i protagonisti perdenti intendevano fare qualcosa di rischioso. Il pensionato di Milano e gli Albanesi non sapevano neppure di essere entrati in un gioco d'azzardo, mentre molti dei clienti di Vanna Marchi si rivolgevano a lei proprio per poter giocare al lotto senza correre rischi. Persone, che, sia in Italia sia in Albania, non erano povere in assoluto, ma che contavano su del denaro -forse faticosamente guadagnato- che poteva consentire loro un minimo di respiro, sono precipitate nella miseria piu' nera e nella disperazione piu' profonda -se non anche nell'abbrutimento. Perche' succedono queste cose? Ci sono persone "predestinate", oppure tutti siamo esposti a un rischio del genere? Non siamo, forse, davvero tutti un po' bambini, quei bambini che seguono il primo sconosciuto che offre loro un paio di caramelle, o un album di figurine, o la possibilita' di procurarsi un videogioco, a seconda dei gusti? E se questa fosse la realta', rendercene conto e indagarla spassionatamente non potrebbe forse gia' rappresentare una qualche protezione?
 
 
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