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Il caso Welby. Cosa c'entra con l'accanimento terapeutico? E con il testamento biologico?
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Osservatorio legale di Claudia Moretti
1 gennaio 2007 0:00
 
Chi sostiene il diritto alla scelta terapeutica sul fine vita di Welby, di tutti gli Welby, si e' sentito spesso rivolgere l'accusa di strumentalizzare il dibattito sul testamento biologico per ottenerne, di fatto, una porta da aprire sull'eutanasia. E di confondere i due piani (Welby e testamento biologico) fino a creare confusione e pericolosa mistificazione.
Crediamo, al contrario, che proprio coloro che cio' affermano siano vittime di confusione concettuale e di equivoco.
Vediamo come e perche'.
A ben vedere, tutta la questione del testamento biologico ruota intorno ai temi che sono stati oggetto delle recenti pronunce, la sospendibilita' di un trattamento, il diritto al dissenso e alla revoca dello stesso, i limiti della liberta' personale in tema di fine vita... Mai come in questi giorni il tema appare meritevole di un approfondimento, anche in relazione alle pronunce del Tribunale di Roma nel caso Welby e della Corte d'Appello nel caso Englaro.
Infatti, ed e' bene chiarirlo a chi vorrebbe la separazione dei piani (Welby - testamento biologico), il compito del legislatore sara' quello di equiparare, con lo strumento delle dichiarazioni anticipate di trattamento, le possibilita' di scelta dell'incapace a quelle del capace. Nulla di piu' che la risoluzione di una patente e incostituzionale violazione del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.).
Non si puo', dunque, non vedere come le vicende giudiziarie dei casi Welby ed Englaro (in quest'ultimo caso la Corte d'Appello di Milano pare abbia negato l'interruzione delle cure ad Eluana perche' i macchinari che la tengono in vita non costituirebbero accanimento terapeutico), che pur si collocano fuori dalla tematica specifica delle dichiarazioni anticipate di trattamento, abbiano un riflesso diretto sulla formazione della legge e rischiano se non correttamente analizzate, di far passare tesi che negano diritti espressamente previsti in Costituzione.
Cosi' come oggi e' stato messo in discussione il diritto alla sospensione delle cure richiesto personalmente da parte di soggetti capaci di intendere e di volere (Welby), oppure tramite i loro rappresentati e tutori (Englaro), un domani rischiano di non poterlo rivendicare chi lo avra' richiesto con le dichiarazioni anticipate di trattamento o tramite il proprio fiduciario.
Per questo le due vicende portano in se' le domande e le risposte che il Parlamento dovra' darsi e darci nel legiferare su questa materia.
Chiarito questo punto nodale, non si puo' non rilevare il secondo colossale equivoco (doloso e strumentale) in cui si vorrebbero impantanare diritti costituzionali, sbandierando il proprio no all'accanimento terapeutico. C'e' infatti un filo pericoloso che potrebbe collegare queste decisioni giudiziali con quelle che usciranno dall'aula parlamentare, ed e' il costante uso improprio che si fa del concetto dell'accanimento terapeutico. Infatti, l'accanimento terapeutico, anziche' -come e'- limite all'attivita' del medico, e, in determinate condizioni, fonte di sua responsabilita' professionale, lo si vorrebbe limite alla autodeterminazione di ognuno e alla sua scelta terapeutica.

Una chiara stortura, un vizio logico dalle conseguenze autoritarie.

1. Nel caso Welby, i giudici affermano (a sproposito) che fra i motivi per i quali il diritto costituzionale alla sospensione delle cure non puo' dirsi tutelato c'e' anche il fatto che manca una definizione legislativa del concetto di accanimento terapeutico. E' bene chiarire che il diritto alla scelta terapeutica in merito ai trattamenti sanitari non e' affatto subordinato alla presenza di accanimento terapeutico ne' trova nella sua assenza un limite. Il dettato della Costituzione non lo pone, anzi lo nega, nel momento in cui rinvia alla normativa attuativa per la sola definizione e determinazione delle sole eccezioni alla regola (il Trattamento sanitario obbligatorio). L'art. 32 e' chiaro. Univoco direi.
Il concetto di accanimento e' concetto medico, e medico legale, piu' che giuridico, indefinibile a priori. Nasce e descrive un comportamento illegale penale, civile e deontologico, che comporta sanzioni penali civili e deontologiche laddove si riscontrino comportamenti lesivi derivanti da colpa medica. Una volta che il paziente, in scienza (perche' informato) e in coscienza (perche' libero di autodeterminarsi), decide di accettare una cura o di rifiutarla, non trova alcun spazio applicativo il concetto di accanimento terapeutico, per il semplice fatto che decide lui cosa, per la propria persona, sia cura appropriata o meno.

2. Stesso errore nella pronuncia della Corte d'Appello. Anziche' accertare la volonta' di Eluana, verificare la validita' del consenso e del dissenso alle cure, manifestato attraverso chi oggi la rappresenta (Beppino Englaro) e provato a mezzo di testimonianza, si invoca artatamente e impropriamente il concetto di accanimento terapeutico. Concetto che, ripeto, esula dalla domanda giudiziale e semmai apparterrebbe ad altro giudizio: quello penale, civile -risarcitorio- e deontologico che le vittime e i loro parenti potrebbero istaurare a violazione compiuta.
Si pretende, infatti, di negare ad Eluana l'interruzione delle cure che la mantengono in vita perche' l'alimentazione e l'idratazione artificiale non costituirebbero "accanimento terapeutico". Bene, e anche se cosi' fosse? Non si puo' certo far derivare dall'assenza di una violazione la non esercitabilita' del diritto alla scelta terapeutica!

Con, e grazie a questa mistificazione, l'accanimento terapeutico, in origine difesa del paziente, diviene strumento non a sua garanzia e tutela, ma contro lo stesso e a dispregio delle sue volonta'. Contro colui che e' ancora in grado di intendere e volere (come lo era Welby) sia contro chi, divenuto incapace, ha -inutilmente- confidato e affidato al testamento biologico la sua scelta sul fine vita.
 
 
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