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Espropriazione per pubblica utilita' e indennizzo. Meno male che c'e' l'Europa.
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Osservatorio legale di Claudia Moretti
15 dicembre 2006 0:00
 
Chi ha avuto la triste esperienza di un espropriazione per pubblica utilita', conosce l'immane trafila per ottenere un equo ristorno economico per la perdita dei propri beni. La materia e' complessa, composta di numerose norme che si sono accavallate nel tempo, oggi finalmente riunite in un testo unico, il D.p.r. 327 del 2001, che riproduce sostanzialmente le disposizioni di vecchio tenore in una mirata e puntuale procedimentalizzazione dell'esproprio. Ma l'onda delle espropriazioni passate non si e' ancora esaurita ed esistono tutt'oggi casi e pronunce giudiziali che affrontano il problema da vecchie retrospettive in cui i Comuni spesso hanno operato senza tener alcun conto dell'altruita' del bene privato.

L'espropriazione per pubblica utilita', per chi invece, fortunatamente, non ne avesse fatto esperienza diretta, e' la procedura ablativa che un ente pubblico (solitamente il Comune) adotta per ottenere coattivamente la cessione di un bene immobile dal cittadino proprietario. Si chiama "per pubblica utilita'" perche' e' successiva ad un provvedimento in cui (nelle sedi istituzionali amministrative) si delibera, piu' o meno esplicitamente, la necessita' di acquisire detti immobili per la realizzazione di opere a vantaggio della collettivita'. Nulla di male, sin qui.
Ma il punto dolente dell'intera materia e dell'intero procedimento espropriativo e' il quntum debeatur, ossia quanto deve corrispondere l'ente pubblico espropriante al privato, per lo spoglio dei propri beni. Quanto spetta al privato? Quanto gli spetterebbe se decidesse di vendere, secondo il valore venale oppure, in vista dell'interesse pubblico su citato, spetta ai Comuni uno "sconto"? E se si', di che entita'?
Fino a pochi anni fa vigevano norme di vecchissima data (di fine 1800) in cui si accordava al privato il diritto ad avere l'intero prezzo effettivo di mercato, visto e considerato che gia' subiva una compressione del proprio diritto di proprieta'. Poi le cose sono cambiate, e lo Stato ha reclamato esigenze di rifinanziamento e risanamento dei conti pubblici.
In particolare, con la legge 359/1992, nel suo articolo 5 bis, oggi riprodotta integralmente nell'art. 37 del testo unico citato, si prevedeva che se il cittadino si rifiuta di vendere volontariamente il bene da espropriare, l'ente espropriante avrebbe potuto procedere coattivamente decurtando il 40%, l'indennita' calcolata secondo il valore venale e di mercato. Il tutto con applicazione retroattiva (sigh!)!
Insomma, in poche parole "se non mi dai la terra al prezzo che ti impongo, sappi che tanto te la prendo lo stesso e al 40% in meno del suo prezzo commerciale." Il che evidentemente impone al privato, con fare ricattatorio, la vendita al prezzo prestabilito dall'amministrazione.

Tale meccanismo, che ha l'indubbio pregio di velocizzare la cessione e di salvaguardare le tasche delle amministrazioni locali ai danni del privato, e' stato avvallato da numerose pronunce della Corte Costituzionale (sent. n. 442/1993; n. 153/1995, n. 147/1999), che lo ha persino elevato a norma fondamentale di riforma economico sociale, attinente ai principi generali del diritto di proprieta', secondo gli articoli 3 e 42 della Costituzione.

Peccato (e per fortuna) che la norma non piaccia affatto alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo (CEDU)!!
Una recente pronuncia della Corte, sentenza del 29 luglio 2004, Scordino contro Italia, ispirata al Protocollo addizionale n. 1 allegato alla Convenzione europea dei diritti umani che protegge la proprieta' privata, smonta radicalmente l'impianto italiano in materia di indennita' di esproprio. In sintesi, la Corte asserisce che, meccanismi procedurali a parte (della quale si mostra per lo piu' disinteressata) cio' che conta e' il prezzo finale con cui si ripaga il privato dello spoglio subito. Ebbene tale prezzo non puo' non essere assimilato a quello del valore venale e commerciale del bene stesso.

Alla stregua di un vero e proprio terremoto, la Corte, fedele alla sostanza delle cose, piu' che al cavillo formale tipico del nostro Paese, ha cosi' chiesto all'Italia una nuova riformulazione della materia, e la fine della violazione dei diritti umani, fra cui - che piaccia o no- quello della proprieta' privata, protetto dalla Convenzione e dal Consiglio d'Europa.
Gli effetti di tale pronuncia si sono fatti immediatamente sentire anche nelle nostre aule giudiziarie. La Corte di Cassazione, con ordinanza del 26 settembre - 19 ottobre 2006 n. 22357 ha infatti sollevato nuova questione di legittimita' costituzionale, anche e proprio in merito a quanto statuito in Europa.
Adesso la palla ritorna alla Corte Costituzionale. Siamo curiosi di vedere se, anche dopo la tirata d'orecchie di Strasburgo, la Corte avra' il coraggio di difendere ancora il diritto di proprieta'.all'italiana.
 
 
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