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Quote rosa nelle società. Consiglio di Stato: garantiscono efficienza economica e funzionalità delle aziende
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Osservatorio legale di Claudia Moretti
22 luglio 2014 13:18
 
Il dibattito sulla legittimità ed opportunità delle quote rosa in Italia, contrariamente a quanto ormai assodato in Europa, non è ancora sopito. Vi sono i contrari che gridano alla discriminazione “al contrario” e alla libertà di impresa (e di libera decisione sui relativi amministratori). Poi vi sono i contrari “per il bene stesso delle donne” che rischierebbero, con le quote, di veder sminuire i propri meriti in ragione dell'appartenenza di genere, finendo per costituire “razza protetta”, trattati come Panda in via di estinzione.
L'Europa, da lungo tempo ormai, ha preso posizione favorevole ed ha raccomandato gli Stati membri ad intraprendere percorsi legislativi contenti misure di riequilibrio di genere. In Italia, invece, si assiste ancora ad un dibattito che, visto dall'esterno, ha il sapore degli anni sessanta, di un film di serie B, in bianco e nero.
Ciò non di meno, e a discapito di quanto a volte siam costretti a sorbirci nei dibattiti televisivi, il percorso della parità di genere prende comunque piede anche da noi. Si pensi alla legge di modifica della Costituzione (legge cost. n. 1 del 2003), con la quale all'art. 51, comma 1 Cost. è stato aggiunto il periodo secondo cui «La Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini».
Oppure ancora alla legge 23 novembre 2012, n. 215 ha dettato «Disposizioni per promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nei consigli e nelle giunte degli enti locali e nei consigli regionali. Disposizioni in materia di pari opportunità nella composizione delle commissioni di concorso nelle pubbliche amministrazioni» e alla legge n. 120/2011 che prevede che il riparto degli amministratori da eleggere delle società quotate in borsa, sia effettuato in base a un criterio che assicuri l'equilibrio tra i generi: il genere meno rappresentato deve ottenere almeno un terzo degli amministratori eletti.
Proprio su queste norme si è espresso in sede consultiva il Consiglio di Stato, su domanda del Dipartimento delle Pari Opportunità, che ha dovuto decidere se dovesse o meno applicarsi l'obbligo della parità di genere (e dunque l'obbligo che impone almeno un terzo di donne al comando) alle società controllate a capitale misto (pubblico-privato) e controllate da distinte amministrazioni pubbliche fra loro (c.d. controllo disgiunto), oltre che a quelle a capitale pubblico tout court. Al di là del quesito tecnico giuridico, al quale il Consiglio di Stato risponde in senso favorevole estendendo l'applicazione della suddetta normativa di settore, la decisione appare interessante per le motivazioni che esprime in generale in punto di quote di riserva.
Oltre ad una interessante ricostruzione storica della legislazione di riequilibrio di genere, si affrontano le fondamenta degli istituiti in questione, le finalità e scopi che li sottendono, individuando quelle che maggiormente possono risolvere il dilemma quote sì-quote no.
Orbene, il Consiglio di Stato individua due fra le ragioni a sostegno delle quote, una più filosofico-giuridica ed una social-economica, a fronte della violazione dei principi di libertà economica e di libera organizzazione delle imprese costituita dall'obbligo di riserva.
La prima attiene al fatto che l'equilibrio di genere costituisce espressione della cd. democrazia partecipativa e, ancor prima della dignità della persona, che non può essere esclusa dal circuito dei poteri -pubblici o privati- sulla base dell'appartenenza a un genere. Dunque un principio di uguaglianza vera e propria e di equità che anche in sé per sé considerato dovrebbe spingere a superare istanze di libertà di impresa che, tuttavia, alla fine dei salmi, discriminano il sesso femminile.
Ma tale ricostruzione non persuade i relatori del parere, tant'è che ritengono che non sia sufficiente a superare le obiezioni opposte dai “contrari alle quote”. A parere del Consiglio di Stato allora, occorre qualcosa in più dei sani principi, occorre ravvisare il fondamento della legittimità delle leggi di riequilibrio nelle prerogative politico-economiche e funzionali che la loro applicazione porta con sé.
Infatti, la seconda ragione, la più forte e convincente a detta del Consiglio di Stato, consiste proprio negli effetti benefici del riequilibrio fra generi ai vertici delle società quotate, pubbliche e miste che siano. Grazie alla parità di genere si realizzano migliori performance, maggior efficienza, capacità, economicità e buon andamento. Nel parere si accoglie l'argomentazione contenuta in una sentenza del Tar Lazio (n. 6673/2011):
“Soltanto l'equilibrata rappresentanza di entrambi i sessi in seno agli organi amministrativi, specie se di vertice e di spiccata caratterizzazione politica, garantisce l'acquisizione al modus operandi dell'ente, e quindi alla sua concreta azione amministrativa, di tutto quel patrimonio, umano, culturale, sociale, di sensibilità e di professionalità, che assume una articolata e diversificata dimensione in ragione proprio della diversità del genere. Organi squilibrati nella rappresentanza di genere, in altre parole, oltre ad evidenziare un deficit di rappresentanza democratica dell'articolata composizione del tessuto sociale e del corpo elettorale (il che risulta persino più grave in organi i cui componenti non siano eletti direttamente, ma nominati), risultano anche potenzialmente carenti sul piano della funzionalità, perché sprovvisti dell'apporto collaborativo del genere non adeguatamente rappresentato.”
In conclusione, può non piacere dover ricorrere al criterio della funzione economica delle donne ai vertici per giustificare misure di riequilibrio, che anche solo sotto altri profili di giustizia, dovrebbero senz'altro esser accolte. Ma riteniamo che il dato economico possa quantomeno aprire gli occhi a molti, molto più che i bei principi, non fosse altro perché, coniugando le esigenze di giustizia a quelle pratiche di buon andamento, regala futuro ad una parità di genere, ancora oggi nella pratica, timida e incerta.
 
 
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