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Perché la Commissione europea ordina all’Italia di recuperare l’Ici esentata (anche) al Vaticano
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Tributi di Redazione
4 marzo 2023 9:48
 
 La Commissione europea riconosce le «difficoltà per le autorità italiane nell’individuare i beneficiari», ma non le ritiene sufficienti a motivare la rinuncia a recuperare «gli aiuti di Stato illegali concessi ad alcuni enti non commerciali sotto forma di esenzione dall’imposta sugli immobili».

Il tributo in questione è l’Imposta comunale sugli immobili (Ici), che tra il 2006 e il 2011 non hanno dovuto versare gli enti non commerciali che «esercitavano determinate attività sociali di natura economica». Tale esenzione riguardava gli «enti ecclesiastici» in senso lato, come la Chiesa Cattolica, che è stata tra i maggiori beneficiari, ma anche le altre confessioni e, in generale, gli enti no profit o con scopi filantropici.

La condizione (prevista dal decreto legge del 1992 che ha istituito l’imposta, sostituita nel 2012 dall’Imu) era che la destinazione dei locali fosse «esclusivamente allo svolgimento con modalità non commerciali di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, di ricerca scientifica, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive».

Il terzo governo Berlusconi, nel 2005, aveva fissato come discrimine solo la natura non «esclusivamente commerciale» delle attività. Anche se orientate al profitto, quindi, era il loro legame con finalità di religione o di culto a dar diritto all’esenzione. Mario Monti avrebbe sanato l’ambivalenza, escludendo appunto solo gli immobili dove viene svolta un’attività con modalità «non commerciale».

La Commissione ora ordina all’Italia di recuperare gli «aiuti illegali», di cui nel caso più emblematico della Chiesa non esiste una stima precisa. La decisione arriva dopo la sentenza del 2018 della Corte di Giustizia dell’Ue che annullava parzialmente un altro provvedimento dell’esecutivo comunitario, risalente al 2012.

Nel 2012, Bruxelles dichiarava l’esenzione fiscale incompatibile con le norme europee sugli aiuti di Stato, ma senza prescrivere al nostro Paese di rintracciare gli arretrati «in quanto le banche dati, fiscali e catastali non consentivano di individuare i beneficiari». Nel 2018, come detto, la Corte ha poi parzialmente annullato la decisione della Commissione, chiedendole di verificare invece se esistessero metodi alternativi per recuperare le somme, «anche se solo parzialmente».

Nella decisione di stamattina la Commissione riconosce «l’esistenza di difficoltà per le autorità italiane nell’individuare i beneficiari dell’aiuto illegale, ma conclude che tali difficoltà non sono sufficienti per escludere la possibilità di ottenere almeno un recupero parziale dell’aiuto». Quanto alle tecniche per farlo, l’esecutivo comunitario suggerisce di «utilizzare i dati delle dichiarazioni presentate nell’ambito della nuova imposta sugli immobili (l’Imu, ndr) e integrarli con altri metodi, comprese le autodichiarazioni».

C’è un’eccezione: non andranno recuperati gli aiuti concessi per le attività non economiche e quelli «de minimis», cioè quelli di modesto importo, la cui cifra massima è pari a duecentomila euro «per ciascuna impresa, nell’arco di un periodo di tre anni». Come riporta Pagella Politica, il passaggio dall’Ici all’Imu, tra il 2011 e il 2012, è valso un aumento del gettito complessivo per lo Stato da 9,2 miliardi di euro a 23,7 miliardi di euro.

Come tutti i provvedimenti di Bruxelles, anche questo è impugnabile. L’Italia, volendo, potrebbe fare appello alla Corte di Giustizia dell’Ue, ma – come spiegano a Linkiesta fonti della Commissione – la decisione di oggi arriva proprio sulla scia di una sentenza dei giudici del Lussemburgo, gli stessi ai quali Roma dovrebbe rifare nuovamente ricorso.

(Linkiesta del 03/03/2023)
 
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