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L'amministratore di sostegno: la volonta' del beneficiario
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Famiglia e individuo di Claudia Moretti
20 maggio 2010 13:11
 
Voglio raccontare la vicenda giudiziaria del Sig. P. in materia di amministrazione di sostegno, per evidenziare le ambiguita' della normativa che si presta, se non correttamente inquadrata nei principi di libera autodeterminazione dell'individuo, a pericolose derive di paternalismo giudiziale.
La normativa sull'amministrazione di sostegno, nella sua scarna formulazione e apparente semplicita', presenta numerosi aspetti di non facile gestione nella sua attuazione pratica. O meglio, lascia ampi spazi di discrezionalita' al giudice procedente. Infatti, come e' noto, la novella del 2004 va a sostituire le farraginose procedure di interdizione e inabilitazione che non garantivano una celere risoluzione dei problemi di assistenza e rappresentanza dell'incapace.
Vi e' tuttavia una profonda ambiguita' nel nuovo sistema, che non vi era in quello vecchio. Da un lato si e' sostituito il previgente apparato “protettivo” nei confronti di chi e' incapace -totalmente o parzialmente - di intendere e di volere, stabilendo forme di accertamento e soluzioni tempestive al suo bisogno. Dall'altro si sono aggiunte nuove e diverse forme di rappresentanza e assistenza per chi, pur capace di intendere e di volere, necessita di un determinato sostegno a causa di una o piu' varie e/o temporanea impossibilita' di provvedere a determinati propri interessi.
Nel primo caso, allora, a prescindere dal contributo e dalle volonta' dello stesso beneficiario, si comprende come si possa procedere a “proteggerlo”, anche suo malgrado, con la nomina di un amministratore di sostegno. Nel secondo, invece, essendo il soggetto capace di intendere e volere, lo strumento giurisdizionale dovra' necessariamente considerarsi al servizio della volonta' della persona stessa, delle sue scelte, anche e soprattutto in punto di indicazione dell'amministratore designato.
Si tratta, a ben vedere, di due ipotesi radicalmente distinte, sebbene contenute nella medesima disposizione normativa. E proprio perche' contenute nella medesima normativa e' facile che i confini siano confusi e indefiniti, soprattutto per quei giudici che pensano di poter entrare a gamba tesa nel merito delle decisioni, anche quando non competono loro. Cosi' non e' nelle precedenti procedure (che pur residuano), ove l'incapacita' totale o parziale e' il presupposto di fatto e di diritto sul quale si ammetteva la nomina, anche coatta di un tutore. Nessuna sentenza di limitazione della capacita' di agire e di determinarsi poteva essere imposta in assenza di un processo con tanto di periti e medici competenti.
Detta ambiguita' crea allora pericolosi spazi grigi ove il giudice tutelare competente puo', discrezionalmente e senza garanzie particolari, perizie, o quant'altro, imporre un amministratore di sostegno a chi e' capace di intendere e di volere, ovvero imporne uno diverso a quello scelto e pre designato dallo stesso beneficiario.
E' quello che e' accaduto nel caso del sig. P., affetto da disturbi psicotici e dell'umore, in cura da anni con psicofarmaci e psicoterapia. La patologia, al pari delle piu' comuni patologie psichiatriche, non inficia affatto la propria volonta' di intendere e volere. P, persona pienamente in grado di autodeterminarsi, per colpa della malattia, ha tuttavia necessita' di esser assistito nei momenti in cui si acutizzano i sintomi depressivi, o quando, a seguito di episodi di crisi, affronta difficolta' a relazionarsi con il personale sanitario, o anche ad effettuare quelle operazioni economiche e di gestione che, in quei momenti preferisce delegare. Per questo, nel 2006 ha scelto la propria compagna A., con la quale convive more uxorio da anni, quale sua amministratrice di sostegno, con atto notarile (ai sensi dell'art. 408 c.c.). Nel 2009 chiede al giudice di provvedere a detta nomina, in ragione dell'attualita' del bisogno, che, come detto si manifesta a fasi alterne.
Il giudice, che grazie al rito camerale ha ampio potere istruttorio, ascolta il P., e ascolta i parenti del P, che egli non frequenta da anni e che hanno dissapori con la A. I parenti si dichiarano contrari alla nomina della convivente A. Il giudice decide di non procedere dunque all'investitura richiesta, ma conferisce l'incarico a B, estraneo all'entourage familiare. In poche parole, fra i due litiganti il terzo gode.
Il P. ha deciso di fare appello contro questa imposizione coatta di un terzo non voluto, non richiesto e che dovra' pure pagare (sebbene la legge preveda l'incarico gratuito, il giudice puo' disporre l'indennita'...). Crediamo che abbia tutte le ragioni per farlo e per vincere. Il giudice, infatti, in modo formalmente legittimo, ha valicato illegittimamente la soglia del legalmente possibile. Ha prevaricato i voleri del P, in ragione di un suo presunto bene superiore, non avendo posto a fondamento del provvedimento la sua incapacita' di autodeterminarsi, ne' avendo promosso alcuna consulenza tecnica in merito.
Ci pare che, nella possibilita' teorica del giudice di nominare la persona “che ritiene piu' adeguata all'incarico”, non sia ricompresa quella di sostituirsi all' insidacabile scelta del beneficiario, se non si e' prima dimostrata, secondo i crismi di tutte le garanzie processuali e di difesa, e secondo gli intendimenti medico scientifici, la sua incapacita' di scegliere.
 
 
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