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TRADUCTORA TRAIDORA
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La pulce nell'orecchio di Annapaola Laldi
15 ottobre 2008 0:00
 
Dal Cammino di Santiago  …    

"Tra-duc-to-ra trai-do-ra".
Me li vedo ancora sfilare davanti i quattro hidalgo spagnoli, baldanzosi pellegrini quarantenni della buona borghesia madrilena (uno ci teneva a dire che abitava nello stesso quartiere del primo ministro Aznar!), mentre io ero accasciata per la stanchezza sul ciglio di una strada di campagna vicinissimo, come avrei scoperto poco dopo riprendendo la marcia, alla famosa Fuente de los Moros, una bella costruzione medievale che facilitava l'accesso a una provvidenziale sorgente. Non so se a scandire divertito quelle parole col dito scherzosamente puntato su di me fu il farmacista, l'avvocato, il medico o l'ingegnere; so che queste erano le professioni dichiarate, ma e' tutto quello che in concreto ricordo di loro. Per me erano i "tre moschettieri". E tali si dimostrarono in effetti, quando, obbedendo al motto degli eroi di Dumas padre "Uno per tutti. Tutti per uno", dopo una settantina di chilometri da quell'episodio, abbandonarono in blocco il Cammino di Santiago perche' a uno di loro era insorta una tendinite. 
 
… una dritta ...

"Traductora traidora": e vai! Anche in Spagna avviene questo cortocircuito, pensai fra me e me. D'altra parte, l'esca gliel'avevo gettata io al moschettiere spagnolo, perche', obbedendo all'invito dei registri degli ostelli del Cammino, alla voce "professione", fra le due o tre che potevo legittimamente scegliere, non avevo avuto il minimo dubbio di dichiararmi "traductora", perche' tale mi sento per vocazione. Ed e' proprio questo che avrei voluto fare subito, appena laureata, e questo tentai, anche di fare, ma, dopo un paio di prove, dovetti rendermi conto che, purtroppo, una persona comune non puo' mantenersi con le traduzioni. I latini dicevano "Carmina non dant panem", cioe' scrivendo poesie non si vive. In epoca moderna, appunto, neppure facendo traduzioni.
Dato che dovevo contare sulle mie forze, mi trovai obbligata a optare per qualcosa di piu' sostanzioso e sicuro, trasformando la traduzione in niente di piu' che un hobby che si coltiva nei ritagli di tempo. Ma la vita -lo posso testimoniare con tranquillita'- e' sorprendente. In tutti i sensi. E, accanto a qualche sorpresa, di cui, a dire il vero, avrei fatto volentieri a meno, a me ha riservato anche questa possibilita' di dedicarmi, in eta' piu' matura, a questa mia passione, che non si era affievolita col passare degli anni. Anzi.
Questo e', per cosi' dire, l'antefatto, ovverosia lo sfondo su cui adesso desidero  osservare piu' da vicino il cortocircuito che viene fatto comunemente mettendo accanto i due termini (traduttore e traditore) come se fra di essi ci fosse qualcosa di piu' di una semplice assonanza, la quale tuttavia ha avuto e continua ad avere un peso enorme se e' vero, come e' vero, che nei dizionari italiani, fra i diversi significati di "tradire", e' menzionato esplicitamente pure quello di "distorcere", "travisare" il pensiero di qualcuno non solo in generale, ma anche in sede di traduzione da una lingua a un'altra.

...per andare oltre un luogo comune

Parto dunque con la mia riflessione, sapendo che c'e', come dire, una base massiccia e compatta nel pregiudizio che vuole il traduttore in veste di traditore, che e' difficile da scalfire, anche se occorre osservare che questa equazione e' un problema tutto italiano e spagnolo, di quelle lingue, cioe' dove traduttore fa rima con traditore. Comunque, cio' che mi propongo qui (e di cui mi contento) e' di esprimere liberamente le mie considerazioni che sono andate maturando nel tempo, dopo aver preso sul serio questo slogan e averlo anche usato come severo richiamo d'attenzione nel mio fare, non foss'altro per il rispetto che sento fortissimo per me stessa, in primo luogo, e subito dopo, a pari merito, per chi ha scritto cio' che devo tradurre e per chi dovra' leggere cio' che avro' tradotto.

Ebbene, secondo me, dire "traduttore traditore", a parte l'intrigante, anzi, intrigantissima assonanza, significa prendere un abbaglio.
Di sicuro sul piano etimologico che e' e resta essenziale per capire a fondo il significato dei termini che usiamo.
Sia "tradurre" sia "tradire" vengono dal latino. Partiro' da "tradire" che viene dal latino trado, is, tradidi, traditum, tradere (sempre con l'accento tonico sulla sillaba "tra"), che significa: "consegnare", "affidare", "dare". Il filologo Giacomo Devoto, nel suo Dizionario etimologico del 1968, osserva che e' stato "influenzato nel significato dall'uso peggiorativo della tradizione evangelica, nella quale Gesu' e' 'consegnato', e cioe' 'tradito' da Giuda". Ma attenzione, il verbo latino, tradere, a conferma del suo primo significato pacifico di "consegnare, affidare", sta anche alla base del termine "tradizione", che e' l'insieme di cio' che il passato ha consegnato ai posteri. E con questo significato di "tramandato" e' usata (anche se a livello specialistico) quella stessa parola "tradito", questa volta pero' con l'accento tonico alla latina, cioe' sulla sillaba "tra". (Un'ultima curiosita': anche se non si vede bene, trado, tradere, e' un composto di trans e dare; parola di Giacomo Devoto).
Invano pero' si cercherebbe fra i significati del "tradere" latino uno che somigli a "tradurre", e questo per la semplicissima ragione che non e' lui la "matrice" del termine italiano. Tradurre, insomma, non ha proprio niente a che vedere con "consegnare", mettere nelle mani di".
E sfido io! Tradurre, infatti, viene da un altro verbo latino, e cioe' da traduco, is, traduxi, traductum, traducere (sempre con l'accento tonico sulla sillaba -du-), dove la formazione del termine composto (trans e duco) e' piu' chiara rispetto al precedente. Traducere in latino significa principalmente "far passare oltre", "trasportare" e anche proprio "tradurre", nel nostro senso di volgere un testo da una lingua a un'altra.
E dunque, partendo dall'etimologia, la persona che traduce non consegna proprio niente a nessuno (e tanto meno in mani ostili), ma piuttosto e' lei che riceve in consegna un testo per trasportarlo in un altrove che ha un paesaggio sempre diverso (anche moltissimo) da quello in cui quel testo si e' formato.
Chi traduce va visto dunque come un traghettatore, o passatore, come si diceva una volta. E per me, questa, e' una bellissima immagine, che ben rende l'azione del tradurre in tutta la sua complessita' e delicatezza. Chi traduce, dunque, riceve nelle proprie mani una cosa viva e palpitante, vale a dire cio' che un individuo, altrettanto vivo e palpitante, ha plasmato o forgiato esprimendo la sua personalita' nel proprio sistema linguistico e orizzonte culturale legato al luogo, all'epoca, alla situazione, in cui l'opera e' stata concepita e data alla luce. E questa opera pulsante di una vita ormai propria, chi traduce la deve trasportare in un diverso sistema linguistico, a cui fa da sfondo un diverso orizzonte culturale, un'altra sensibilita', tutt'altro patrimonio di modi di dire, di derivazioni etimologiche … Saranno queste mie mani abbastanza forti e abili da non sciupare l'originale e sostenerlo in questa sua transizione che significa pur sempre un rimodellamento? O, per mantenere la metafora del traghettatore, sara' questa mia barca abbastanza solida e accogliente per comprendere, in ogni senso del termine, tutta la ricchezza che trasporta, e farla scendere sull'altra sponda senza che si sia sciupato niente non solo della sostanza ma anche della forma? Sapro' tenere la rotta dell'imbarcazione e guidarla con perizia anche se e quando il vento agiti furiosamente le acque e il loro livello cresca in modo preoccupante, e la corrente minacci di spingerla lontana dal giusto approdo? Come si vede l'immagine del traghettatore e' ottima perche' tradurre significa anche e proprio attraversare flutti tempestosi, magari pure cercare un piccolo rifugio momentaneo per aspettare che la tempesta passi e riprendere dopo con maggiore calma il viaggio. Che fuor di metafora significa sostare davvero su singoli punti, magari tornandoci e ritornandoci piu' volte, ruminandoli, intanto, nella mente e nell'anima, e non stancarsi di fare il punto della rotta con precisione. Tradurre un testo letterario o saggistico, ma forse anche tecnico, e' una cosa che vuole tempo, anche perche', a mio avviso ed esperienza, bisogna farsi amici profondi e rispettosi di chi l'ha scritto, il che non significa peraltro complici. Gli occhi vanno tenuti aperti, anche se, ovviamente, non possiamo intervenire sugli eventuali errori che scopriamo (al massimo ci possiamo permettere il fatidico "sic" in una "nota del traduttore", per dire a chi legge: guarda che io, traduttore, con questa castroneria non c'entro niente). Sulla qual cosa, a mo' di esempio, posso ricordare quella volta che mi tocco' tradurre che la fatidica mela che, secondo la tradizione, porto' alla scoperta della legge di gravita', era cascata in capo a Galileo invece che a Newton. E anche un'altra cosa e' importante e me l'ha insegnata la mia amica tedesca S. che ho la fortuna di avere vicina e disponibile ad aiutarmi quando annaspo in acque limacciose o mi trovo bloccata in secche che sembrano insuperabili. A volte da lei mi sono sentita dire: si', hai capito quello che c'e' scritto, solo che in italiano hai usato un termine troppo preciso; in tedesco, invece, c'e' un termine molto generico. E qui constato come sia facile correre il rischio di interpretare il pensiero dell'autore e quindi limitarlo a qualcosa di preciso, troppo preciso, che non rientrava esattamente nelle intenzioni originarie. Questo ammonimento mi e' servito anche per fare piu' attenzione alla stessa lettura di testi italiani; anche qui, a ben vedere, spesso l'interpretazione personale travalica le intenzioni dell'autore, le fa leggere da una prospettiva limitante e quindi fuorviante che non e' la sua. Potenza della nostra personale formazione culturale e della carica emotiva che ci detta imperiosamente una pre-comprensione che non rende giustizia al testo, e magari ci fa partire lancia in resta contro ostacoli in realta' inesistenti per sfondare usci aperti e…fare un volo nella piscina come in quell'esilarante e a suo modo spietata scena del film Uno sparo nel buio. (E va ancora bene se la piscina e' piena d'acqua!).
Naturalmente, si puo' vedere il traduttore anche come un paziente artigiano che lavora a mano, servendosi dell'ausilio di una macchina solo ed esclusivamente per la parte meccanica del lavoro, vale a dire la trascrizione, ma niente di piu' perche' cio' che e' vivo non sopporta alcun meccanicismo.
Senza escludere altre immagini che possono rendere giustizia all'arte del tradurre, desidero tornare, in ultimo, a quella suggerita dall'etimologia, cioe' traduttore come chi trasporta il testo da un luogo a un altro, e questo per portare all'attenzione un infelice slittamento possibile proprio in tale ambito. Infatti, oltre a tutti i rischi di naufragio insiti nell'immagine del traghettatore, ve ne e' un altro, e cioe' quello di trattare il testo come un prigioniero, o peggio, ancora un sequestrato. Gia', perche' tradurre, anche nella forma latina, ha pure il significato di trasportare un prigioniero, e il servizio della polizia penitenziaria (un tempo dei carabinieri) addetto al trasporto dei prigionieri si chiama, guarda caso, servizio "traduzioni".
Per finire un augurio: che la barca del traghettatore non si trasformi mai in un cellulare della polizia dove il testo diventa come un individuo senza diritti, e a bordo vi si respiri sempre a pieni polmoni l'aria frizzante e rigenerante della piena liberta' di esistere e di esprimersi in quella salutare tensione che, per quanto a volte scomoda, e' pur sempre l'unica linfa vitale di ogni autentica relazione creativa.
 
NOTA
 
All'inizio ho usato il termine spagnolo "hidalgo"che significa "nobile" (alla lettera: hijo de algo, cioe' "figlio di qualcuno").
 
La fotografia della Fuente de los Moros, che si trova in Navarra, a un chilometro dal paese di Villamayor de Monjardín, e' ripresa, con riconoscenza, dal sito seguente, dove si possono vedere molte altre immagini di varie localita' poste sul Cammino di Santiago:
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(a cura di Annapaola Laldi)
 
 
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