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Quattro anni dopo la Brexit, l’Unione non si è dissolta e il Regno Unito ha perso tutte le sue certezze
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Stati uniti d'europa di Redazione
25 giugno 2020 9:27
 
 Quattro anni fa gli inglesi partecipavano al referendum sulla Brexit che avrebbe dovuto dissolvere l’Unione europea e inaugurare l’era della Global Britain. Ma dell’anniversario del 23 giugno 2016 non se n’è ricordato nessuno. E forse è questa la sintesi migliore di un periodo di negoziati, retromarce e stalli che ha regalato ai 27 Stati membri la consapevolezza di essere più uniti di quello che credevano e ha tolto a Londra molte certezze che credeva inscalfibili. 
Nell’ultimo quadriennio il vostro Paese è cambiato in meglio? È un parametro classico della comunicazione politica. Prendete questa domanda e rivolgetela agli inglesi. Quel voto doveva segnare l’inizio della fine, invece ha aperto uno psicodramma nazionale. 

Il divorzio dall’Unione Europea è scattato in ritardo, il premier Boris Johnson è riuscito ad avviarlo solo lo scorso il 31 gennaio. Il Regno Unito è formalmente uscito ma i suoi negoziatori stanno trattando con Bruxelles i futuri rapporti commerciali. «L’anno di transizione» scade alla fine del 2020, ma finora i bilaterali si sono arenati senza accordi. Nelle puntate precedenti, procrastinare è stato un palliativo gradito a Londra e sul continente, però non si potrà rinviare all’infinito, congelando lo status quo. 

Indietro veloce
Nel 2016 il Regno Unito non s’è svegliato euroscettico. È più complicata di così. C’è un fiume carsico nella politica British: scorreva nelle vene dell’opinione pubblica prima di cristallizzare la faglia fra élites londinesi sui divanetti verdi e il «popolo» attorno.  Con l’eccezione di Margaret Thatcher, quasi ogni leader inglese ha preso il potere attaccando la Comunità europea, per ritrovarsi a difenderla a fine mandato. Il partito conservatore ha sempre sofferto di «eurofobia» congenita, per esempio il trattato di Maastricht venne ratificato con un margine di soli tre voti.
Quasi nulla però è andato secondo i piani della scellerata campagna per il Leave, quasi disorientata all’indomani della vittoria. Il fatto è che mentre il Regno Unito s’arenava, l’Europa è andata avanti. A Londra si dimetteva David Cameron, Theresa May sarebbe andata incontro alla stessa sorte: dopo esser uscita azzoppata dalle elezioni anticipate, non è mai riuscita a far digerire a Westminster il patto di recesso. Un Paese paralizzato, ostaggio delle invidie intestine dei Tories.

Nel frattempo, l’Ue
ha cancellato il roaming e ridotto le commissioni per i pagamenti online con le carte di credito, ha approvato il regolamento per la protezione dei dati sensibili, istituito i «Solidarity Corps», ha siglato accordi commerciali con Canada, Giappone, Singapore, Vietnam, Messico, Australia, Nuova Zelanda, ha creato una cooperazione strutturata permanente tra i suoi eserciti (Pesco), e ha messo l’ambiente in cima all’agenda del prossimo decennio. 
Naturalmente, le priorità non devono restare sulla carta; ci sarà tempo per verificarlo. Nel Regno Unito non s’è avuta la percezione di un dinamismo paragonabile. Anzi, la traversata nel deserto di Londra è diventata il miglior deterrente al secessionismo. Invece di innescare una reazione a catena di suffissi -exit, ha unito gli Stati membri. Il caos ha raffreddato gli emuli di Farage a tutte le latitudini. Non più «uscita» come parola chiave, meglio parlare di «riforma». 

Il distacco ha rimosso uno (non l’unico, purtroppo) degli ostacoli all’integrazione. Con i governi inglesi ancora al tavolo, non ci sarebbe stato il Next Generation Eu, né gli altri aiuti, ma avremmo visto una versione molto più pesante del Meccanismo europeo di stabilità, con forti condizionalità, perché la presenza di Londra avrebbe dato più coraggio agli Stati «frugali» che oggi chiedono di spendere meno per il budget pluriennali e gli aiuti agli Stati del Sud Europea. Chi si aspettava il requiem dell’Unione dopo la Brexit, insomma, è stato clamorosamente smentito. 

Non tutto è andato storto per il Regno Unito: Il Liverpool ha pur sempre vinto l’ultima Champions League (dove le inglesi continueranno a giocare), per altro in finale contro i connazionali del Tottenham. Battute a parte, formulando profezie di declino faremmo lo stesso errore degli ultrà euroscettici di allora. Da un’analisi costi-benefici, almeno finora, a Londra la Brexit ha portato più svantaggi di quanti ne abbia generati. 

Non si contano le incognite: dalla tenuta dell’unità del Regno, fra i rinnovati indipendentismi di Scozia (dove circolano sterline senza effigie della Regina) e Irlanda del Nord, a quanta voce in capitolo avrà una nazione isolata in un contesto geopolitico dove spadroneggiano i giganti. Il legame con i vicini europei, poi, è troppo profondo per reciderlo, anche se i contorni di questa partnership sono ancora da decifrare.  
Gli inglesi non sembrano pentiti, casomai stufi. A dicembre hanno consegnato una maggioranza che non si vedeva da decenni a Boris Johnson, premiato da un messaggio semplice: «Get Brexit Done». È controintuitivo rileggere quei risultati slegandoli dal sistema uninominale (ogni minuscolo seggio elegge un solo deputato, le preferenze del secondo partito sono carta straccia). Però sommando i voti dei partiti europeisti – Laburisti (10,2 milioni) e Libdem (3,6 milioni), senza contare il bottino dello Scottish National Party (1,2) – si superano i quasi 14 milioni di voti del trionfo conservatore. 

È la fotografia di un Paese ancora diviso, che non aveva elaborato un giudizio finale sulla rotta da intraprendere. Figuriamoci un plebiscito, come quelle elezioni sono state dipinte anche all’estero. Ormai è fantapolitica, ma in un referendum il meccanismo non è l’uninominale. «Finora Brexit ha cambiato tutto e niente», ha scritto il Guardian nell’anniversario. Come in certi serial televisivi, a forza di colpi di scena che rimandano sempre al prossimo episodio, il finale di stagione rischia di scoccare nell’indifferenza del rumore di fondo. Forse l’hanno già trasmesso e non ce ne siamo accorti.

(articolo di Matteo Castellucci pubblicato su Europea/Linkiesta del 25/06/2020)
 
 
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