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La vecchia Ici sull'abitazione principale: alcuni Comuni battono cassa sui coniugi che risiedono in immobili separati
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Tributi di Claudia Moretti
25 ottobre 2012 12:16
 
Con l'introduzione dell'Imu, ed in particolare con l'art.13 comma 2 del DL 201/2011, si è posto fine alla possibilità di considerare abitazione principale -e ottenere così le relative agevolazioni fiscali - due case di proprietà ove i coniugi hanno distinta dimora, sebbene solamente per gli immobili ubicati nel medesimo comune: "Se i componenti del nucleo familiare dimorano o risiedono in immobili diversi all'interno dello stesso territorio comunale, l'agevolazione si applica ad un solo immobile.”
Diversamente ai tempi dell'Ici, ove le agevolazioni prima e le esenzioni poi, trovavano varie possibilità di espansione nelle case al mare, in montagna e quant'altro. Bastava prendervi residenza e si presumeva che tale fosse la dimora abituale del residente, anche ai fini Ici.
Tutto questo in piena disinvoltura di un Paese abituato agli escamotage, ai quali l'amministrazione finanziaria non poneva, evidentemente, granché attenzione, né opposto alcuna reale resistenza.
Di recente, tuttavia, col supporto di una sentenza della Corte di Cassazione, n. 14389 del 15 giugno 2010, alcune amministrazioni comunali si sono, come dire, “risvegliate” ed hanno richiesto retroattivamente ai propri residenti informazioni e autocertificazioni volte a svelare le fittizie abitazioni principali e, nella sostanza, a batter cassa nei confronti dei nuclei familiari che hanno goduto dei benefici in questione.
Ecco in sintesi il caso affrontato dalla Corte e le ragioni esposte nella sentenza.
Due coniugi, non separati né con una rottura del legame familiare in corso, avevano dichiarato due distinte residenze anagrafiche e conseguenti distinte abitazioni principali ai fini Ici. La moglie dimorava abitualmente a Bolzano con i figli, il marito in una casa, di presunta villeggiatura a dire dell'amministrazione, in altro Comune. A prescindere dal certificato anagrafico (che fa fede fino a prova contraria), la Corte accoglie le ragioni del Comune che interpreta restrittivamente la normativa secondo cui, “per abitazione principale si intende quella nella quale il contribuente, che la possiede a titolo di proprietà, usufrutto o altro diritto reale, e i suoi familiari dimorano abitualmente”. (D.lgs 30 dicembre 1992, n. 504 art. 8 comma 2)
Secondo la Corte, il riferimento esplicito ai familiari è determinante a risolvere il caso. Poiché il codice civile disciplina puntualmente gli obblighi fra coniugi, tra cui quello di stabilire comune dimora familiare e quello della coabitazione – salve esigenze lavorative specifiche-, laddove non sia provato lo spostamento della propria dimora abituale dovuto alla “frattura del rapporto di convivenza”, si ha abitazione principale tutti insieme, dove dimora l'intera famiglia.
Sebbene le argomentazioni si fondino su un modello di famiglia che trova sempre più eccezioni (si pensi alle numerose volte in cui i coniugi lavorano in città diverse, o dove i figli sono fuori da casa e vivono altrove), non si può non riconoscere che spesso le regole sulla prima casa a fini Ici siano state oggetto di stortura ed elusione fiscale.
Tuttavia, la prassi dei Comuni che, sulla base dell'interpretazione restrittiva su indicata vengono oggi a chiedere denari per il passato, evidenzia una crisi, prima ancora che economica, giuridica e di buona fede nei rapporti col contribuente.
Sarà sufficiente qui citare solo alcune disposizioni dello Statuto del Contribuente per comprendere che la tardiva risposta dell'amministrazione al furbetto del quartierino non possa giustificare una prassi del tutto illegale e ritorsiva:
Art. 1 comma 2
“L’adozione di norme interpretative in materia tributaria può essere disposta soltanto in casi eccezionali e con legge ordinaria, qualificando come tali le disposizioni di interpretazione autentica.”
Art. 3 comma 1
“Salvo quanto previsto dall’articolo 1, comma 2, le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo.”
Art. 10 comma 1 e 3
“1. I rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede...[...]
3. Le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria o quando si traduce in una mera violazione formale senza alcun debito di imposta. Le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto.”

Chi si trova in questa situazione ben potrà segnalare tale prassi illegittima al Garante del Contribuente, affinché prenda conoscenza e i provvedimenti in merito, come previsto dall'art. 13 dello Statuto citato.
 
 
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