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COLOSTRO: CHI ERA COSTUI?
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La pulce nell'orecchio di Annapaola Laldi
1 marzo 2001 0:00
 

Ovvero: come t'imparo l'italiano (e non solo) spulciando le leggi. In molti, credo, abbiamo ancora davanti agli occhi l'immagine pubblicata dai giornali circa un mese fa, di un vitellino appena nato, leccato amorevolmente dalla sua mamma. Peccato che l'idillio fosse subito infranto dalla didascalia: "Anche lui e' destinato a immediata eliminazione perche' e' venuto alla luce nell'allevamento della mucca 103".
Ebbene. Chiariamo subito che a lui il colostro non sara' stato somministrato. Tutto risparmio di tempo, fatica. O no?
"Il colostro" -cosi' spiega il "Dizionario della lingua italiana" di De Mauro - e' quel "liquido giallognolo, secreto dalle ghiandole mammarie durante gli ultimi mesi di gravidanza, costituito da cellule epiteliali e da un supporto liquido pieno di proteine" . E' quel "primo latte" che chi raccomanda l'allattamento al seno dei neonati umani considera necessario anche per il benessere futuro dei bambini.
Ebbene, per garantire una sorsata di colostro ai neonati bovini degli allevamenti italiani c'e' voluta una legge , e cioe' il decreto legislativo sulla protezione dei vitelli nella sua seconda versione (D. Lgs 533/1992 corretto e integrato dal D. Lgs. 331/1998 ), in cui e' stato inserito ex novo il punto 15 dell'allegato che testualmente recita: "Ogni vitello deve ricevere colostro bovino quanto prima possibile dopo la nascita e comunque entro le prime sei ore di vita".
Questa semplice frase, che sembra cosi' banale, nasconde invece, a rifletterci sopra, delle realta' inquietanti. La prima e' che evidentemente non c'e' necessariamente rapporto fisico fra il vitello e la mucca sua madre dopo la nascita , perche', se questo rapporto fosse scontato, come forse ingenuamente pensiamo, il vitellino, il colostro, se lo popperebbe tranquillamente da solo dalle mammelle materne. E dunque c'e' da prendere in considerazione una separazione immediata di madre e figlio. Certamente, perche' il latte che sarebbe dei vitellini ce lo beviamo noi (o lo buttiamo via, secondo l'umore del momento).
Ma anche ora che il diritto al colostro gli e' riconosciuto, perche' evidentemente le sostanze in esso contenute rendono piu' forte l'animale (e questo e' un vantaggio anche per gli allevatori), sembra, dalle parole usate, che tale sostanza gli debba essere somministrata da qualcuno che non e' la mucca, perche', in tal caso, non sarebbe necessario scomodare il legislatore per fargli dire che deve riceverlo "quanto prima possibile.... e comunque entro le prime sei ore di vita". Sappiamo bene che il neonato, di regola, nasce con una gran fame e cerca subito il seno materno.
E poi: che cosa gli davano, prima, ai vitellini appena nati? Niente colostro? O forse il colostro di qualche altra specie? O forse un qualche intruglio chimico? Chissa'.

L'esempio del colostro ci deve far ricordare che, quando una legge stabilisce un comportamento, significa che nel passato esso non era osservato da tutti, anche se era gia' considerato necessario per sortire un certo scopo. Lo stesso vale per la negazione di un comportamento da parte della legge. Il "non uccidere", e' chiaro, testimonia la tendenza diffusa a far fuori gli avversari.
Sullo stesso piano del punto 15 dell'allegato al D. Lgs.331/98, si situa il punto 11, che sostituisce quello del precedente decreto (533/92), la' dove stabilisce il tasso minimo di emoglobina (forse in risposta a denunce come quella della LAV ) e precisa anche che, dopo la seconda settimana di eta', deve essere somministrata ai vitelli una dose giornaliera di alimenti fibrosi, la quale, in seguito, fra le 8 e le 20 settimane (termine del loro viaggio in questa autentica valle di lacrime), deve essere portata dai 50 ai 250 grammi al giorno. Andando a leggere il vecchio testo, ci accorgiamo che, fino al settembre 1998, non solo non era fissato il tasso minimo di emoglobina, ma che addirittura, "per la produzione dei vitelli a carne bianca", non era prescritto l'obbligo di somministrare alle bestie neppure un minimo di alimenti secchi contenenti fibre. Il che significava un'alimentazione esclusivamente liquida o semiliquida, con scarsissimo o nullo contenuto di ferro. Gli effetti di una simile dieta sulla salute e il benessere di questi animali sono difficili da immaginare? E l'effetto di carni cosi' ottenute su di noi? E pensare che molti medici sono ancora convinti che mangiando carne si assume ferro!
Non che adesso le cose siano molto diverse, perche', d'istinto, viene da dire che un tasso minimo di emoglobina di 4,5 mmol/lt e una dose giornaliera da 50 a 250 grammi al giorno di alimenti fibrosi sembrano misure alquanto scarse. E comunque resta la domanda: ma cosa gli danno da mangiare a queste bestie? O forse e' meglio dire: Cosa gli danno da bere? E a noi, se mangiamo carne, cosa ci danno a bere?
Oltre al problema del vitto, la normativa affronta anche quello dell'alloggio dei vitelli da carne. E cosi', sempre nell'allegato, veniamo a sapere -per facile induzione- che di regola i vitelli, almeno prima del dicembre 1992, potevano starsene al buio tutto il santo giorno. E' infatti il punto 5 dell'allegato che ci illumina (e' proprio il caso di dirlo) sul fatto che "I vitelli NON devono restare continuamente al buio" . E, bonta' sua, il legislatore italiano (sulla scia di quello europeo) riconosce che "e' opportuno prevedere ......un'illuminazione adeguata naturale o artificiale che, in quest'ultimo caso dovra' essere almeno equivalente alla durata di illuminazione naturale normalmente disponibile tra le ore 9.00 e le ore 17.00". Si deduce comunque che puo' essere norma che i bovini degli allevamenti non conoscano mai la luce del sole, ad esclusione del momento in cui saranno caricati sul camion che li porta al macello.
Per quanto riguarda lo spazio minimo assicurato ai vitelli nelle stalle (ricordiamoci che il decreto parla di "protezione dei vitelli"), il decreto 331/98 innova il comma 3 dell'art. 3 da subito per quanto riguarda gli allevamenti nuovi o ristrutturati alla data del 1 gennaio 1998, lasciando pero' nei vecchi allevamenti le stesse condizioni di vita degli animali fino al 31 dicembre 2006. Si puo' intuire il motivo economico che detta questa proroga (non costringere gli allevatori a spese ingenti immediatamente), ma otto anni sembrano francamente troppi.
Gli animali piu' fortunati, dopo le otto settimane, non potranno piu' essere tenuti in box singoli (che probabilmente erano una regola), a meno che non siano malati, nel qual caso la superficie del box deve essere del 10% superiore a quella che si ottiene moltiplicando l'altezza al garrese per la lunghezza del vitello (dalla punta del naso all'inizio della coda). Non e' molto, ma sempre meglio della strana superficie, dettata dall'art.3 comma 1, tuttora vigente per i box degli allevamenti anteriori all'1.1.1998, che "devono avere una larghezza non inferiore a cm. 90, piu' o meno il 10%, oppure a 0,80 volte l'altezza del garrese".
Che poi in una simile superficie -ma anche quella nuova- il vitello possa, "coricarsi, giacere, alzarsi e accudire a se stesso senza difficolta'", come richiesto dal punto 7 dell'Allegato, e' cosa tutta da vedere.
Per i vitelli allevati in gruppo - che sara' norma per tutti dal fatidico 1.1.2007- il decreto assicura una superficie minima per vitello di 1,5 mq, il che significa che in un locale di 15 mq - un soggiorno, una camera da letto? - e' garantita la presenza di 10 vitelli di 150 Kg oppure di 9 vitelli fra i 150 e i 220 Kg oppure ancora di 8 bestie di oltre 220 Kg.

Analoghe norme si riscontrano per i suini . Di essi si occupa l'ormai vecchio D. Lgs. 30.12.1992, n. 534, che non e' stato ancora aggiornato, nonostante si attendesse una nuova Direttiva comunitaria entro il 2000.
Al capitolo I dell'allegato, punto 5, anche per i suini si dice che "non devono stare al buio". La formulazione della norma e' identica a quella che si trova nel decreto sulla "protezione dei bovini", e, a questo proposito, c'e' da notare che il legislatore italiano, evidentemente, non ha avuto voglia o tempo di adattare alla realta' italiana il dettato europeo. Infatti vi si legge: "....e' opportuno prevedere, date le diverse condizioni climatiche degli Stati membri, un'illuminazione adeguata....", il che suona abbastanza buffo.
Anche con questo decreto e' interessante immaginare lo spazio minimo garantito alle bestie allevate in gruppo (art. 3, comma 1). Prendendo come riferimento i soliti 15 mq, vi potremo incontrare, di volta in volta, 15 suini di peso medio superiore a 110 kg., o 23 fra gli 85 e i 110 kg, o 27-28 di peso fra 50 e 85 kg, e cosi' via fino ai 100 piccolini di peso pari o inferiori a 10 kg. Quasi una carica dei 101!
Un interrogativo a conclusione dell'argomento "alloggio": e' legittimo pensare che la "superficie minima" prevista dalla normativa sara' intesa, in realta', come la superficie "stabilita per legge", da cui nessun allevatore vorra' scostarsi? Registreremo volentieri risposte contrarie suffragate da prove.
Con i suini nasce il problema dell'autolesionismo o del cannibalismo, che non e' assolutamente presente in natura, ma e' indotto dal sovraffollamento e dalle cattive condizioni generali in cui questi animali sono costretti a vivere. Di conseguenza e' previsto che nei primi giorni di vita possano essere loro mozzati gli incisivi e la coda.
Di cio' si occupa l'allegato (capitolo II, punto III/4 -Lattonzoli-), che dice testualmente: "Il mozzamento della coda e dei denti non deve essere effettuato in modo sistematico, ma soltanto quando nell'allevamento si constatino lesioni alle mammelle delle scrofe, alle orecchie o alle code dei suini le quali possono essere evitate soltanto con tali operazioni. Se la troncatura dei denti e' necessaria, deve venire asportata solo la parte terminale degli incisivi e l'operazione deve aver luogo entro i primi sette giorni di vita".
Pensare che il mozzamento della coda e dei denti non diventi un fatto sistematico, una vera e propria routine, mi pare un'illusione. Significherebbe, infatti, avere un'attenzione e una capacita' di osservazione -e anche tempo per fare cio'- che mal si concilia con le notizie e le immagini che abbiamo degli allevamenti industriali. Lo potra' fare un privato, forse, che ha una sola scrofa, ma la' dove il maiale e' una pura e semplice macchina da prosciutti, il dubbio e' lecito.
Per quanto riguarda la castrazione, lo stesso capitolo dell'allegato (punto III/3), la prevede effettuata "sotto anestesia, da un veterinario o da altra persona qualificata", ma, come sappiamo, ci sono associazioni che denunciano l'inosservanza di questa norma.
Del parto delle scrofe si occupa lo stesso capitolo (punto II/1 e punto III/2), per accennare solo a dei non meglio identificati "stalli da parto" e "gabbie da parto" (oggetto di vibranti denunce da parte di alcune associazioni animaliste), nelle quali ultime "i lattonzoli devono disporre di uno spazio sufficiente per poter essere allattati senza difficolta'".
Unica consolazione. Il famoso colostro, loro, almeno, lo popperanno di sicuro. torna ad Avvertenze

 
 
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