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Pensioni, diritti acquisiti e dinamiche demografiche
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Macromicro economia di Domenico Murrone
15 gennaio 2007 0:00
 
Un economista classico della prima meta' dell'800, Thomas Malthus, dava a guerre, epidemie e carestie una valenza "positiva". Diceva: se la popolazione cresce troppo rispetto alle risorse disponibili (cibo in primis), le malattie e l'eterna voglia degli umani a farsi la guerra avrebbero riportato il sistema "umano" in equilibrio.

La stratosferica crescita economica della Cina e' anche dovuta alla disponibilita' di giovani lavoratori. Lo Stato asiatico e' il piu' popoloso del mondo, nonostante il controllo delle nascite attuato da decenni dal regime cinese, con la politica del figlio unico. La limitazione ha fatto si' che i cinesi abbiano di fatto "selezionato" il sesso dell'unico figlio, preferendo i maschi, cio' produrra' nel 2020 uno squilibrio, 30 milioni di uomini non avranno donne cinesi da sposare.

Nel 1950 gli ultrasessantacinquenni degli Stati sviluppati appartenenti all'Ocse erano il 7,8% della popolazione. Nel 1980 erano il 10,8%, oggi il 13,8%. Si stima che nel 2020 si arrivera' al 16,2%. In Italia, l'indice e' attualmente al 19,9%, le proiezioni ci dicono che tra 13 anni sara' del 26%.

Chi pensa che le dinamiche demografiche, intese come numero di abitanti e speranza di vita media, non influenzino il livello di benessere e le possibilita' di sviluppo, e' servito.
Chi pensa che esistano "diritti acquisiti" non modificabili, e' servito
. Parliamo naturalmente di diritti patrimoniali, come la pensione. Con queste tendenze, che senso ha temporeggiare e ostacolare una radicale e creativa riforma? Razionalmente, nessuno. Da un altro punto di vista, si'. E' interesse di gruppi piu' o meno numerosi, piu' o meno organizzati mantenere lo status quo, affinche' gli appartenenti alle corporazioni tutelate mantengano un trattamento che penalizzera' le future generazioni.

Vale il ragionamento gia' sviluppato in una precedente numero di MacroMicroEconomia:
La teoria dei giochi e la rivoluzione liberale: clicca qui

Da oltre un decennio in Italia si parla di riforma pensionistica. Nonostante gli interventi, a partire dal 1995, ancora il sistema visto in prospettiva non e' in equilibrio. E ci vuol poco a capirlo.
Dopo le riforme Dini, Prodi e Maroni, il sistema pensionistico italiano e' misto. In parte e' a ripartizione e in parte contributivo. Quest'ultimo proporziona l'assegno mensile ai soldi versati e al loro rendimento, il primo agli ultimi stipendi del lavoratore.
Il sistema a ripartizione fu "inventato" dal cancelliere tedesco Otto von Bismarck quando la durata media della vita era inferiore all'eta' pensionabile, ha funzionato finche' la crescita demografica era alta. Ora non sarebbe sostenibile. Ma non e' sostenibile neppure il sistema misto ora in vigore, se non vengono modificati in fretta alcuni parametri.
Con una popolazione di circa 60 milioni, nel 2020 un quarto degli italiani, ben 15 milioni, sara' ultrasessantacinquenne, e inevitabilmente non lavoreranno e godranno di una pensione. Si aggiungano i minori di 18 anni e gli altri che non lavoreranno o non potranno farlo (come per esempio i malati e i disabili). E' facile prevedere che circa la meta' della popolazione italiana non produrra', una parte in attesa di cominciare a lavorare e un'altra parte gia' in pensione.
Questi banali calcoli dovrebbero indurre chi ha davvero a cuore la permanenza di un sistema di assistenza ad abbandonare tutti gli ostracismi e incoraggiare un sistema pensionistico alternativo a quello attuale (che non reggera'), con uno nuovo che tenga conto della bassa natalita' e del veloce aumento della speranza di vita. E invece ci si ostina, per miopia e interessi di bottega, a non portare immediatamente l'eta' pensionabile per tutti (salvo i cosiddetti, ma mai definiti, lavori usuranti) a 65 anni. I principali oppositori sono i sindacati, i cui iscritti sono per circa la meta' gia' pensionati. E non e' un caso.
 
 
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