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Capodanno 2000: come un presagio?
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La pulce nell'orecchio di AnnapaolaLaldi
23 gennaio 2014 12:38
 
 Cercando ispirazione per le noterelle del capodanno 2014, mi sono imbattuta negli appunti scritti di getto il primo gennaio del 2000. Ero andata, come d'abitudine, a Firenze per festeggiare il nuovo anno con quella sua magia della cifra tonda, anche se ero convinta che il millennio nuovo cominciasse nel 2001. Ciò che vidi e percepii mi sconcertò. Tanto. Fino a farmi dire, a un certo punto: “Ma non potevo restare a casa?”. Appena rientrata, mi misi a scrivere. Lì per lì, ricordo, pensai che le cose che avevo visto/vissuto fossero come un presagio inquietante per me e per l'anno che era appena cominciato. In effetti, un po' di confusione in quei 366 giorni ci fu. Ma, rileggendo tutto adesso, a distanza di 14 anni, mi domando se il quadro che mi si parò davanti agli occhi non fosse, sì, un presagio, ma proiettato ben oltre l'angusto orizzonte di una biografia personale. Più che ci penso, più mi sembra che il riferimento possa estendersi a tutta la vita - e neppure solo del nostro Paese, non foss'altro per l'attacco alle Torri gemelle dell'11 settembre 2001. Offro qui la testimonianza di quella esperienza, sottolineando soltanto che quei ragazzi, di cui parlo, specie alla fine, sono oggi i trenta-trentacinquenni definiti la “generazione perduta”. Mi sento di dire: “Ragazzi, tenete duro come quella mattina di 14 anni fa. Non disperate. Ancor che in ritardo, il vostro treno sta certo per partire. Auguri. In bocca al lupo!”.

1.1.2000

A Firenze, in treno. Quello delle 8:29 è arrivato a Empoli alle 8:50. Perché mai questo ritardo, se il "millennium bug" ha fatto fiasco e il numero dei treni oggi è stato ridotto all'osso? Mistero, come molte altre cose nella gestione delle FS spa.
La stazione di Firenze è trasformata in un enorme bivacco. Di giovani, in maggioranza. Devono essere i reduci della festa di stanotte. Per terra il sudicio regna sovrano. C'è di tutto. Una spessa patina nerastra, viscida e insidiosa, copre il pavimento. Devo stare attenta a non scivolare e appena all'aperto devo strusciare ben bene la suola sulle pietre. Anche la piazza porta i resti della festa, ma è da piazza San Maria Novella che la strada e i marciapiedi diventano un tappeto continuo di cocci di bottiglia. In via de' Pecori c'è una spazzatrice che fa del suo meglio, mentre uno spazzino con aria affranta ramazza via dal marciapiede bottiglie, lattine, cocci e cartacce. Sul fondo di via Roma scorgo una ruspa. E' quello che vi vuole. Non mi piace tutto questo sudicio. E' proprio un necessario corollario di una festeggiamento di massa?

Attraversa piazza San Giovanni una vecchia ricurva. Con una mano regge una borsa nera, con l'altra un sacchetto di plastica. Porta lì tutti i suoi averi? Ogni tre o quattro passi si ferma. Cerca di raddrizzarsi, mentre si guarda intorno lentamente. Poi riprende il suo lento, precario andare. La osservo. Ha le gambe gonfie, livide e incrostate. Niente calze, le scarpe sformate. Da dove viene? Dove va? Freno l'impulso ad avvicinarmi, a cercare di soccorrerla, a offrirle dei soldi. Altre volte ho dovuto constatare che ciò che a me sembra un gesto buono per queste persone è un'offesa. Forse questa presenza sullo sfondo già abbagliante del campanile di Giotto ha proprio la funzione di inquietare. E allora non è lecito in alcun modo placare tale inquietudine, né rimuovendola con un gesto di sedicente generosità, né cercandone giustificazioni psico-socio-moralistiche.

Proseguendo sul tappeto di cocci esco dal centro, salgo per Costa San Giorgio. Forte Belvedere. Da qui, di Firenze si vede solo la bellezza e l'armonia delle architetture. Ma so che è un effetto della limitatezza della vista. Ciò non toglie che il petto si allarghi in un respiro di pieno godimento.
Andando tra i muri di via San Leonardo, mentre salgo verso Arcetri, ammiro la trasparenza dell'aria e il nitido azzurro del cielo in cui si disegnano senza sbavature i volumi compatti di case, torri e cipressi, e il fine ricamo intessuto dai rami di querce, tigli, ippocastani.

In fondo a via della Torre del gallo sale al cielo una densa colonna di fumo nero. E' un cassonetto che brucia, come vedo avvicinandomi, ora, con una certa apprensione per il timore che vi sia dentro qualcosa che possa esplodere. Vedo già le civette dei giornali: "Passante investita da esplosione la mattina di Capodanno". Questa è una delle volte in cui vorrei avere il cellulare. Fermo un'auto con due signore: loro il cellulare ce l'hanno. Chiamano il 115, che squilla a vuoto. Allora il 113. L'agente risponde che gli incendi non sono affar loro. Ammiro la signora che riesce a manifestare in modo civilissimo il proprio disappunto per tale risposta e insiste perché siano loro ad avvisare i pompieri. Intanto ha preso fuoco anche il secondo cassonetto. Riprendo la discesa. Mi hanno raggiunto due donne. Una lamenta il fatto che nessuno chiami i pompieri (Errore, signora, ci abbiamo provato. Chissà), l'altra, che porta due sacchetti delle immondizie, si dirige, tranquilla come una lasca, verso il cassonetto che ha preso fuoco or ora con l'evidente intenzione di gettarci dentro, comunque, la spazzatura. "Signora, non lo faccia", imploro. La domanda "Ma che è matta?" me la tengo per me. Appena sbucata sul viale dei Colli, avverto la sirena dei vigili del fuoco. Arrivano i nostri. Meno male.

Sul piazzale, le ormai consuete coppie di sposi orientali. Questa volta non sono sicura che siano giapponesi. Forse sono cinesi. Il mio analfabetismo fisionomico è veramente abissale. Mentre sono a un telefono pubblico, che con mia meraviglia funziona, per fare gli auguri a degli amici, passa una Ferrari Testarossa che va a unirsi a una piccola schiera di auto d'epoca, tra cui spiccano una Balilla, una Topolino e una Giardinetta. Beh, anche la Ferrari ci fa la sua figura.
Lascio il panorama della città coronato, sullo sfondo, dalle vette innevate degli Appennini e, ancora più lontane, a occidente, delle Apuane, e scendo di nuovo sui lungarni. Dalla Borsa Merci in poi trovo di nuovo il tappeto di cocci e di sudiciume. La squadra della Nettezza urbana è ancora all'opera - è ormai mezzogiorno - in Calimala. Ne avrà ancora per un bel po'.

La stazione è il letamaio di prima, solo un po' meno piena di gente. Il mio treno è già gremito all'inverosimile, eppure, miracolo dei miracoli, non solo riesco a salire, ma trovo perfino un posto a sedere. Eppure nello scompartimento c'è già parecchia gente in piedi. Le mie compagne di posto sono tre ragazze di Lucca che hanno partecipato alla festa in piazza della Repubblica. Che è stata bella, mi dicono. No, in piazza non hanno patito freddo, perché ballavano. Dopo, alla stazione, sì, tanto. E' dalle cinque che aspettano di salire su un treno. Il primo in cui sono riuscite a entrare è questo delle 12:30. Che parte con soli dieci minuti di ritardo. I cellulari squillano. Come i sonagli di cui canta compar Alfio nella "Cavalleria rusticana", mi viene in mente. Ma è l'unico segno - se si vuole interpretarlo così - di agitazione. Perché tutti questi giovani, reduci dalla nottata di festa e con tutte queste ore di freddo e di attesa snervante nelle ossa, danno prova di una calma e di una pazienza ammirevole. Che si trasmette anche a me. Non posso fare a meno, scendendo, di aggiungere alle doverose scuse nello scavalcare i corpi senza calpestarli troppo anche un sincero "Auguri, buon anno", che viene dal profondo.
 
 
LA PULCE NELL'ORECCHIO IN EVIDENZA
 
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