testata ADUC
LIBERTA', RESPONSABILITA' E DINTORNI. OVVERO: COME UN PESCIOLINO NELL'OCEANO
Scarica e stampa il PDF
La pulce nell'orecchio di Annapaola Laldi
1 febbraio 2004 0:00
 
Alla fine di ottobre ero con un'amica discretamente piu' giovane di me a camminare in quella meraviglia che e' il paesaggio campestre e urbano fra Sovana, Sorano e Pitigliano (Maremma grossetana). Mentre ci godevamo la ricchezza di grazia e profondita', che ci hanno lasciato gli Etruschi e gli altri antichi abitanti di quel territorio, piu' di una volta, tutte e due fummo colte da un'esitazione circa l'esattezza di alcune cose che dicevamo. Insieme, eppur ciascuna per suo conto e a modo suo, ci trovammo confrontate con questa domanda: "Ma che cosa sto dicendo?", oppure: "Ma da dove mi viene questa cosa?", "Chi me l'ha detta?", "Che cosa significa adesso per me?". Ci trovammo, cosi', spontaneamente a toccare con mano che tante, tantissime cose, che pensiamo o addirittura ci vantiamo di sapere, sono in realta' cognizioni almeno di terza o quarta mano, per non dire di decima, e magari anche di milionesima mano. E queste domande, che io, nel mio eremitaggio, avevo creduto un portato dell'eta' che avanza, la piu' giovane amica me le offriva, nuove, come un patrimonio di umanita'.
Perche', cio' che vedemmo in gioco quel giorno non era semplicemente un problema di erudizione; era qualcosa di molto piu' importante e vitale: era, in certo qual modo, un discorso di CONSAPEVOLEZZA DELLA VITA. Infatti, cosi' come ripetiamo a pappagallo nozioni e giudizi raffazzonati su correnti artistiche e filosofiche, scoperte scientifiche, realta' sociali, politiche e religiose, allo stesso identico modo nel rapporto con noi stesse/i, diamo per scontate tantissime cose che scontate proprio non sono. E basta un intoppo anche piccolo nel nostro quotidiano, perche' i nodi della inconsapevolezza vengano al pettine, o, perche', se preferiamo, ci venga dato del buon filo da torcere. E cosi', ormai, non tralascio le occasioni di aprire indagini sul presunto "conosciuto" perche' diventi COSCIENZA VIVA, e sono riconoscente a chi mi spinge a farlo, come accade con questa rubrica, e come e' accaduto di recente, quando sono stata invitata da un amico a introdurre, in un gruppo di persone che si riuniscono intorno a lui, una conversazione su una cosa come "Liberta' e responsabilita'".
Questo tema mi affascina e mi prende da parecchio tempo, perche' ho l'impressione che proprio in esso sia reperibile la chiave di certi eventi fondamentali della mia vita, e quindi mi ci sono tuffata a pesce -del resto, non sono forse nata sotto il segno dei pesci? E non e', forse, questo, della "liberta' e responsabilita'", un vero e proprio oceano?
Dato che alcune riflessioni proposte qui in passato sono state un buon punto di partenza in questa occasione, mi pare giusto registrare in questa stessa sede, come un aggiornamento, cio' che il pesciolino ha scoperto nell'oceano.

A questo punto dell'indagine, mi domando se il filo della liberta' non sia legato inseparabilmente con il filo della responsabilita'. Dove, responsabilita' significa "capacita' di rispondere", in primo luogo a noi stesse/i, di cio' che siamo e facciamo; anche, beninteso, ammettere davanti a noi e agli altri che abbiamo sbagliato e, magari, che siamo addirittura debitori insolventi, accettando tutte le conseguenze private e pubbliche che ne derivano.

In altri termini: se non c'e' responsabilita', si puo' parlare di liberta'?
Senza la capacita' di rispondere delle nostre azioni, non c'e', piuttosto, "licenza", "arbitrio" oppure il procedere in un solco, tanto quello di una pur nobile e veneranda tradizione magari millenaria, quanto quello di una moda effimera, o quello di una abitudine inveterata?
Siamo alle porte del Carnevale, dove "ogni scherzo vale"; proprio come valevano gli scherzi, anche molto pesanti, degli schiavi, debitamente mascherati, nell'antica Roma durante i "Saturnali" (clicca qui) e le "Feriae Augusti" (clicca qui), in cui proprio la LICENZA, cioe' il permesso di fare, per un paio di giorni, quello che gli pareva, era la testimonianza piu' evidente della loro TOTALE DIPENDENZA dai padroni.
Non potrebbe essere, questo, un momento propizio per osservarci da vicino, per verificare quante cose di noi, magari le piu' legittime aspirazioni, non tendano a manifestarsi in forma esplosiva e momentanea, per risparire subito dopo, nel nostro privato calderone ribollente delle occasioni mancate, dei desideri frustrati? E l'eventuale scoperta di questi nostri importanti aspetti calpestati e oppressi, il prendere atto con serieta' -anche con dolore, forse- delle nostre dipendenze e paure non sarebbe gia' un assumerci la responsabilita' di noi stesse/i? E non sarebbe, anche, un atto di amorevole cura nei nostri stessi confronti?

E un'altra domanda s'impone, speculare a quella che ci ha guidato fino qui.
Se non c'e' liberta', si puo' parlare di responsabilita'?
O non ci sara' piuttosto un diffuso malessere, per liberarci del quale cercheremo vanamente e indebitamente la causa negli altri, nella situazione, nel destino "cinico e baro"? O forse, anche, un "senso di colpa" tanto piu' acuto quanto piu' confuso? Ci chiediamo mai, almeno qualche volta, come mai sia tanto diffuso quel gioco perverso dello scaricabarile, di cui abbiamo peraltro un primo illustre, quanto tragico e fatale esempio in Adamo ed Eva, che, secondo la tradizione su cui tanta parte si fonda della nostra civilta', sono i nostri progenitori?
Assumerci la responsabilita' di cio' che siamo, di cio' che facciamo, non e', in fondo, la manifestazione piu' alta della liberta'? Riconoscere i confini del nostro spazio di vita (fino qui rispondo io, ma non di piu' come non di meno), non ci rende, al contempo, liberi nei confronti delle altre persone, anch'esse beneficamente richiamate, con cio', a rispondere di se stesse -richiamate, quindi anche a prendersi cura di se'? E non e' solo in questa maniera che potremmo avere relazioni davvero chiare e paritarie, potremmo essere fra di noi compagni e non complici? Non e' soltanto in questa nitida lealta' che verrebbe anche spontaneo prestarci vicendevolmente a portare dei pesi non nostri, ma che schiaccerebbero la persona che si ritrova a fronteggiarli da sola?
Domande su domande, a mano a mano che il pesciolino guizza cauto e rispettoso, ma non intimidito, fra le severe onde dell'oceano.


NOTA
Per quanto riguarda la caduta nel peccato (o "peccato originale") di Adamo ed Eva, trascrivo le parti del brano della Genesi (Gen 3,11-13), in cui mi sembra evidente lo "scaricabarile" di cui ho parlato.
Dopo aver mangiato ciascuno del frutto dell'albero proibito, quello della conoscenza del bene e del male (fico o melo, poco importa), i due si accorgono di essere nudi, e si nascondono fra gli alberi del giardino quando sentono arrivare il Signore. E quando il Signore capisce perche' si nascondono e chiede a Adamo: "Hai forse mangiato dell'albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?", per tutta risposta Adamo punta il dito accusatore su Eva, dicendo: "La donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato dell'albero e io ne ho mangiato". E, cosi' facendo, accusa anche il Padreterno di avergli messo accanto un essere infido e, soprattutto dimentica che, poco prima, vedendosela davanti, plasmata da una sua costola, l'aveva riconosciuta con giubilo come "carne della mia carne e osso delle mia ossa". Eva, dal canto suo, alla richiesta del Signore: "Che hai fatto?", risponde accusando il serpente: "Il serpente mi ha ingannata e io ne ho mangiato". Ma: il rispettivo morso al frutto proibito chi glielo ha dato? Questo e' il problema.
Non mi sembra, dunque, fuori luogo aggiungere alle varie interpretazioni della natura del peccato originale (sessuale, di orgoglio, ecc.) anche quella della incapacita' di rispondere delle proprie azioni.
 
 
LA PULCE NELL'ORECCHIO IN EVIDENZA
 
AVVERTENZE. Quotidiano dell'Aduc registrato al Tribunale di Firenze n. 5761/10.
Direttore Domenico Murrone
 
ADUC - Associazione Utenti e Consumatori APS